FABIO MARCO FABBRI: “Mogadiscio senza pace”

In Somalia la guerra contro il gruppo jihadista Harakat Al-Shabāb al-Mujahideen, abbreviato al-Shabaab, è lontana dall’essere vinta. L’ultimo attacco ordito dagli islamisti, sabato 29 ottobre, ha causato – per ora – oltre cento morti e almeno trecento feriti. L’attentato è stato effettuato con la tecnica dell’autobomba: un doppio atto terroristico che ha fatto esplodere, in sequenza, due auto nel centro di Mogadiscio. Hassan Cheikh Mohamoud, presidente somalo, dopo aver visitato il luogo delle esplosioni ha dichiarato che il computo delle vittime potrebbe salire.

La tecnica terroristica segue delle “regole codificate”: infatti, a una prima autobomba fatta esplodere davanti al ministero dell’Istruzione, situato vicino al trafficato incrocio stradale di Zobe, è seguita una seconda esplosione, avvenuta al momento dell’arrivo dei soccorsi e quando i passanti si stavano prodigando ad aiutare i feriti. I jihadisti hanno pure sparato contro donne e bambini: così ha riferito il portavoce della polizia somala, Sadik Dudishe. Al-Shabaab è legata ad Al-Qaeda. È una affiliazione formale suggellata nel febbraio 2012 e combatte, dal 2007, contro il Governo federale che, nonostante sia sostenuto da forze militari internazionali, fa fatica a fronteggiare gli attacchi terroristici.

La Somalia è un Paese instabile e soffre di una diffusa povertà: oltre a questi logoranti attacchi terroristici, sta anche attraversando un periodo di drammatica carestia causata dalla peggiore siccità degli ultimi quarant’anni. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, su una popolazione di circa sedici milioni di persone, quasi la metà soffre di una cronica carenza di cibo. Tra questi cittadini, oltre duecentomila sono a rischio di morte per fame.

La “questione” del jihadismo è diffusa e in crescita in tutta l’Africa. Spesso si tenta di dare delle spiegazioni ideologiche al fenomeno, ma ritengo che le motivazioni siano prettamente socio-economiche anche se “manovrate” da pseudo-ideologie. È noto che molti estremisti islamici, appartenenti alle articolate organizzazioni jihadiste, non conoscano né il testo sacro a cui fanno riferimento, cioè il Corano, né tantomeno il significato di jihad, che è molto più complesso di “guerra santa”. Questi sistemi di aggregazione si basano su indottrinamenti orientati verso una protesta contro l’ordine sociale. Ma sono anche un sistema, per molti disperati, di trovare un’occupazione e una “bandiera” di riferimento.

La comunità Shabaab si basa su precetti soprattutto salafiti, con alcuni aspetti wahhabiti: rifiutano innovazioni all’interno della tradizione religiosa islamica, applicano il “takfir”, un proclama per mezzo del quale un musulmano può dichiarare apostata o non credente un altro musulmano. Un concetto – non presente nel Corano – che è contestato e poco condiviso dalla comunità islamica. Ma, soprattutto, evocano il jihad per sovvertire il Governo centrale, che viene considerato occupante, non musulmano o anti-musulmano. Inoltre, la Sharia, la legge islamica, è applicata nelle comunità che al-Shabaab controlla. Quindi: matrimoni forzati, divieto di intrattenimenti che possono dare svago, divieto di rasatura della barba, divieto di ascolto di musica e programmi televisivi. L’adulterio, appurato anche falsamente, è punito con la lapidazione. Per i ladri c’è l’amputazione delle mani, mentre la decapitazione è comminata agli apostati.

Il gruppo islamista salafita Ansarul Islam, nato nel 2016 e diffuso nell’area del Sahel, è un altro esempio di come un prodotto delle realtà socio-politiche e culturali locali operi per istigare l’insurrezione sociale e la deriva islamista, con tutti gli aspetti collegati. È così che per molti questa lettura dell’islamismo radicale diventa un fattore trainante di contestazione in una società congelata, frustrata e povera. Al-Shabaab comincia a organizzarsi nel 2005. È un attore marginale nel contesto somalo, ma ben presto assume e rappresenta la principale o forse l’unica forza militare delle Corti islamiche che presero il controllo di Mogadiscio nel giugno 2006. E che nei mesi successivi conquistarono il resto della Somalia centro-meridionale. Fu apparentemente smantellata nel dicembre del 2006 grazie, in particolar modo, all’intervento dell’esercito etiope che eliminò anche alcuni importanti leader. Tra il 2007 e il 2010 al-Shabaab riuscì a riprendersi e ad assumere il controllo delle principali città della Somalia meridionale. Nella capitale solo pochi distretti non riuscirono a conquistare. Poi, grazie alla determinazione dell’Amisom, missione dell’Unione africana per la Somalia, venne ripristinato il potere governativo. Nel 2012 gli Shabaab furono cacciati da Mogadiscio, che successivamente perse la maggior parte delle città conquistate, compreso il porto di Kismayo, strategico per la sua economia e per la sua politica. Nel 2018, una maggiore presenza delle forze occidentali, supportate anche dai droni bombardieri, porta al-Shabaab a una contrazione importante della sua presenza, che si localizza in aree marginali e meridionali della Somalia. È da lì che organizza gli attacchi terroristici come quelli attuali. E che colpisce anche i campi di Amisom, oltre che alcune aree in Kenya e Uganda.

Nel complesso, i componenti di questi gruppi hanno nella violenza l’unica motivazione della loro esistenza. Così vediamo i loro leader gestire un sistema terroristico come fosse un’azienda, a livello profitti, e un efficiente ufficio di collocamento a livello occupazionale.

1 commento su “FABIO MARCO FABBRI: “Mogadiscio senza pace”

  1. Complimenti Prof per avere dedicato un articolo alla situazione devastante della Somalia. Credo che in questo momento i conflitti sparsi per il pianeta siano circa una sessantina, ma non ne sentiamo quasi mai parlare. C’è pochissima informazione e attualmente i media sono tutti concentrati sulla guerra Russia-Ucraina. Forse le altre guerre sono troppo distanti dagli interessi politici ed economici? Temo di sì, ciò non può che accrescere le tragedie umanitarie presenti in questi paesi martoriati da anni, dove il terrorismo ha trovato terreno per crescere.

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