AGI, 5 novembre 2022 – Di “lui” da tempo volevo scrivere e l’occasione è l’imminente “Denim Premier Vision Milano”, che avrà luogo dal 23-24 Novembre a Milano. Grande fiera/piattaforma globale e itinerante alla quale, dopo quella dello scorso anno a Berlino, partecipa (tra espositori e visitatori) l’intera comunità del Denim.
La fiera riunisce in un unico evento professionisti del settore per promuovere il proprio know-how, introducendo al contempo tendenze moda del colore e del tessuto per le prossime stagioni. L’evento promuove gli ultimi sviluppi in tema d’innovazioni con proposte incentrate soprattutto sull’eco responsabilità ed è indirizzata tutti gli specialisti del jeanswear. Dai trend elaborati dagli specialisti delle previsioni di tendenza (agenzie forecasting) sembra chiaro che il denim sia uno dei materiali chiave per l’Autunno-Inverno 23-24.
Il denim è uno dei tessuti più diffusi nel mondo della moda (3 miliardi e mezzo di capi prodotti ogni anno), un classico che si è dimostrato versatile e comunque sempre in linea con i tempi.
Vi sto parlando del blue-jeans, proprio di “lui”, il pantalone in denim, il capo più amato e iconico, quello che meglio di ogni altro ha interpretato i cambiamenti culturali facendosi portavoce delle tante trasformazioni, qualificandosi più di altri come un capo must have: rivoluzionario ma democratico e trasversale, casual e sportivo, workwear, chic o glamour, sempre onnipresente in ogni guardaroba: una seconda pelle.
Oggi il mitico blue-jeans affronta la sua più importante rivoluzione e dopo tante trasformazioni eccolo alle prese con la battaglia più difficile quella di attraversare questo difficile fase di transizione ed uscirne indenne e come sempre vincitore.
L’impatto ambientale dei jeans è altissimo. Il denim, oltre ad essere uno dei tessuti più utilizzati e anche uno tra quelli che richiedono il più alto impegno di risorse. E’ ormai noto a tutti che per la produzione di un paio di jeans è necessario impiegare 3.800 litri d’acqua, mentre per produrre un chilo di fibre di cotone occorrono 10.000 litri di acqua, 12 m2 di terreno e 18,3 Kwh di energia elettrica, a fronte di un’emissione di 33,4 kg di CO2 equivalente durante l’intero ciclo di vita del prodotto.
La produzione del tessuto denim, per la realizzazione dei tanto amati jeans, assorbe circa il 35% di tutta la produzione mondiale di cotone. A questo si va ad aggiungere un cospicuo utilizzo di coloranti, pesticidi, prodotti chimici nelle fasi di finitura: tintura, decolorazione e finissaggio oltre al rilascio di microfibre, per il ciclo di lavaggio, nelle acque reflue. Tutto ciò determina un gravissimo impatto ambientale.
Un recente studio ha rilevato che le microfibre del denim sono presenti non solo nelle acque reflue ma anche nei laghi e nei sedimenti marini dell’Artico.
Questo capo, utilizzato per la prima volta nel 1853 da Levi Strauss in California, si è trasformato da semplice indumento da lavoro per minatori in un’icona cult che ha rappresentato intere generazioni, capo per tutti, per ogni occasione global, no global.
Simbolo dei più grandi movimenti culturali: ha rappresentato la libertà nei mitici ‘50 e ’60; il rock nei fantastici ’70; negli ’80 lo Street style e le grandi innovazioni industriali -si diffondono i finissaggi/lavaggi e trattamenti applicati ai jeans – come lo “stone washed” e il “tinto in capo”- innovazioni che hanno determinato una vera rivoluzione nell’industria del settore o ancora divenuto nei ’90, espressione della neo-couture.
Negli ultimi decenni infine, con la diffusione della globalizzazione, che ha rivoluzionato il sistema produttivo dell’industria tessile e con la nascita del “fast fashion”, il jeans è diventato un capo alla portata di tutti, prodotto a prezzi sempre più bassi ma con un “costo” ambientale e sociale sempre più alto tanto da farlo diventare il prodotto più insostenibile!
Certamente rimarrebbe stupito anche James Dean di come un capo così amato e iconico possa esser diventato al tempo stesso il più temuto e discusso.
Per combattere le grandi sfide climatiche dei nostri tempi, l’industria della moda si è mobilitata, cercando di reinventarsi per ridurre la propria impronta ambientale attraverso processi di produzione e approvvigionamento che integrino circolarità e sostenibilità. La trasformazione eco-responsabile dell’industria tessile coinvolge ogni fase della catena del valore.
I grandi produttori di tessuto denim, di jeans e di tutto ciò che ruota intorno a questo mondo, finiti sotto i riflettori, si sono quindi mobilitati per primi per innovare con nuove tecnologie i sistemi produttivi, sperimentando l’utilizzo di fibre diverse che possano sostituire il cotone e quant’altro necessario per traghettare il capo più utilizzato da tutti, verso un futuro più sostenibile e socialmente accettabile.
Stagione dopo stagione, gli sforzi di ricerca e l’offerta eco-responsabile di tanti produttori, che fiere come “il Denim Premier Vision” cercano di diffondere presso tutti gli operatori, continuano a crescere con l’offerta di nuovi prodotti e tecnologie più ecosostenibili.
I materiali proposti dai produttori, pur mantenendo le solite caratteristiche di confort e resistenza, rese possibili dalle mischie di materiali (al cotone si aggiunge la fibra elastica o altre fibre che ne addolciscano e rendano più morbida e fluida la mano) stanno evolvendosi in mischie nuove che utilizzano fibre più sostenibili del cotone come, per esempio, il lino, il lyocell, la canapa e l’ortica. Tra le nuove proposte vi sono anche tessuti innovativi seppur mono-materiali che evitano l’uso della fibra sintetica o tessuti prodotti da fibre riciclate e/o di origine biologica. L’uso di fibre riciclate, fortunatamente, è in grande aumento e non sono poche le aziende che per la produzione del denim nel medio termine adotteranno il principio “zero waste”.
L’uso della canapa si fa più diffuso e trend, fibra nota per essere ecologicamente responsabile, la canapa è un’alternativa valida al lino e si combina facilmente con altri materiali naturali come il cotone dando vita a mischie più ecologiche.
Va diffondendosi la ricerca di fibre alternative, di nuove tipologie di tintura e di coloranti di nuova generazione, per sostituire le finiture e i finissaggi più inquinanti con nuove tecnologie, nonché per l’utilizzo di meccanismi che rendano possibile la tracciabilità e la una produzione trasparente. La tracciabilità mette in primo piano i dati ambientali, sociali e anche il benessere degli animali e degli ecosistemi come pilastri della ricostruzione sostenibile.
Per le finiture si fa sempre più ricorso a lavorazioni meccaniche, che sono meno impattanti di quelle chimiche e per gli irrinunciabili trattamenti (utilizzati per modificare l’aspetto e conferire ai capi un aspetto “vissuto”, “vintage”e “usato”, talvolta persino logoro e scolorito) si propongono nuove tecnologie che possano sostituire quelle molto impattanti come lo stone washed e la sabbiatura.
Il trattamento laser, per esempio, utilizza il calore per sostituire i prodotti chimici tipicamente utilizzati nel lavaggio del denim (questa tecnica brucia parzialmente i pigmenti di colore) o la tecnologia all’ozono, metodo utilizzato per creare effetti sbiancati che viene utilizzata per sostituire la sabbiatura, causa di silicosi e bandita in Europa dal 1966.
Tutte queste nuove tecnologie, come altre in sperimentazione, contrariamente ai metodi convenzionali, non richiedono trattamenti chimici e non rilasciano sostanze nocive. Inoltre non utilizzano o riducono notevolmente il consumo di acqua.
Il settore produttivo del denim si sta sempre più adoperando per diventare sostenibile, ma non è abbastanza considerando i gravi danni causati ancora dai relativi processi produttivi in tutto il mondo (vedi per esempio, le industrie tessili in Cina, in Pakistan o in Bangladesh).
Brand e fornitori hanno effettuato grandi sforzi per ridurre l’impatto ambientale, ma nonostante i grandi progressi molti dei problemi congeniti permangono e non sono di facile ed immediata soluzione.
È importante infine che gli obiettivi di sostenibilità vengano considerati e perseguiti già in fase di progettazione con l’acquisita consapevolezza che il creativo contemporaneo, deve esser anche eco-designer.
“Il designer responsabile”, infatti, tiene conto di ogni aspetto del prodotto fin dalla progettazione, pianificando in anticipo la riduzione dei componenti dei prodotti che finiscono nelle discariche e prevedendo il grado di riutilizzo e la riciclabilità già in fase di progettazione.
Gestire l’intero ciclo di vita di un paio di jeans per produrli in modo sostenibile coinvolge tutte le fasi della catena di approvvigionamento di un’azienda e le aziende devono anche avere “capitale umano” con le giuste competenze per sviluppare i prodotti che i consumatori desiderano e le nuove esigenze richiedono; ne consegue l’importanza di una formazione adeguata e sempre più aggiornata.
https://www.agi.it/blog-italia/idee/post/2022-11-05/quanto-inquina-paio-jeans-18723179/
La questione “sostenibilità ambientale” è da anni molto sentita anche qui in Svizzera.
Devo ammettere che faccio fatica a stare dietro a questo tema. Se da una parte, infatti, si cerca di utilizzare nuovi e maggiormente ecologici metodi di lavorazione, dall’altra rimane inalterato il valore che sostanzia il consumo spesso smodato di capi d’abbigliamento: la ricerca della bellezza a tutti i costi.
Si tende ad essere accettati (e in ultima analisi “amati”) se si è interessanti, instancabili, possibilmente sempre di buon umore ed ultimo, ma non per importanza, belli. Belli a tutti i costi!