Qualcuno mi scrive: ma perché non ti occupi mai di quel che sta succedendo ormai da mesi nel Pd? Rispondo: non mi piace vincere facile.
Vi confesso che di fronte a quello spettacolo, l’unica reazione che sento di avere è allargare le braccia, senza dire niente. Ho come un blocco psicologico a parlarne: se ne parlo male mi sembra di essere impietoso e di sparare sulla croce rossa, anzi peggio, su un malato che ha perso conoscenza e giace steso per terra. Se faccio solo dei rilievi critici, sfondo il muro dell’ovvietà e dico cose così scontate che non vale la pena scriverle né leggerle. Se inferisco sui singoli candidati mi pare uno sport così facile e banale che non ne vale comunque la pena. E se, mosso a pietà, cominciò a essere indulgente, comprensivo, quasi affettuoso, mi travesto da buonista, passo per “traditore”, e anche in questo caso lascio prevalere un sentimento di pietà e di pena sul giudizio onesto e veritiero.
E’ pure contrastante l’atteggiamento sui suoi candidati: non sai se preferire i peggiori, com’è comprensibile per chi avversa la sinistra, oppure sforzarsi di mettersi nei loro panni e cercare la soluzione migliore per loro e non per i loro avversari. Resta contrastante l’atteggiamento di fondo, combattuto tra due ragionevoli opzioni: da una parte il legittimo auspicio che la sinistra resti perdente e minoritaria, dopo troppi anni di egemonia e relativi disastri, finalmente in grado di non nuocere; dall’altro lato c’è l’altrettanto legittima istanza, che per rendere più efficace la democrazia e il sistema bipolare, l’opposizione di sinistra ritrovi la sua linea e riprenda ad esercitare efficacemente il suo ruolo.
Per ora mi sembra che stiano perdendosi sulle regolette, come se il problema principale sia come votare e non cosa, perché, per chi. Si perdono gli scopi della lotta politica, si perdono nelle procedure, non badano alla casa ma al rogito notarile. Non si fidano gli uni degli altri, evidentemente, vige il sospetto e il timore della fregatura. A essere tragici e teatrali direi: lite tra cadaveri su chi ha la precedenza nell’obitorio del Pd.
Allo stato attuale i candidati che sfilano davanti ci sembrano, in un modo o nell’altro, inadeguati. Certo, alcuni di più altri di meno: la candidatura più inadeguata ci pare quella di Elly Schlein che pure dicono favorita. Ma francamente ho forti dubbi sulla statura politica di Bonaccini e non per il suo grottesco look rifatto, le sue scarpine senza calze e i suoi jeans fighetti, col risvolto. Ma per i suoi evidenti limiti d’intelligenza politica, di autorevolezza e di visione oltre Bologna.
Quel che mi colpisce è che non sono personalità politiche ma stereotipi; incarnano un fenotipo, un grumo di pregiudizi, un po’ come nel teatro delle maschere. Elly Schlein assomma un mix di pregiudizi: è giovane cioè nuova, è ztl di buona famiglia, è donna ma lesbica, è un po’ Greta Thunberg, è un po’ sardina, non è bella (altrimenti sarebbe accusata di propendere per la destra), è internazionale, svizzera di nascita, famiglia statunitense di origine ebraica aschenazita, bolognese d’adozione, non ha una storia comunista alle spalle. Un fenotipo perfetto, new left.
Stefano Bonaccini incarna una maschera politica ben nota al Partito, la sinistra emiliana, la sinistra che amministra, il Compagno Peppone 4.0; il baffone staliniano si fa barba, il piglio da coop è ingentilito dalla goccia dei rayban, citazione rivisitata degli anni settanta. Gianni Cuperlo risponde meglio al fenotipo dell’ultima sinistra postoperaia, postproletaria, postcomunista, neoborghese, benestante, salottiera, dams, snob, minoritaria. La quarta candidata, Paola De Micheli, ha tutta l’aria di restare la quarta, in ordine di preferenze, e di interpretare quel ruolo, anche se è stata la prima a candidarsi.
Più che leader sono “generi”. Il genere fondato sul territorio, il gender che rappresenta le nuove soggettività, e via dicendo.
Non emergono personalità forti, riconosciute da tutti: un leader che possa identificare un’area e unificare le diverse anime del partito. Tre su quattro vengono dall’Emilia, faccio notare.
Sforzandosi di superare l’impressionismo superficiale, il nodo vero in cui è stritolata la sinistra è triplo: non ha un leader riconosciuto, che emerge sugli altri; non ha una linea politica e sociale; non ha un’anima politica e un’identità sociale, che non sia antiqualcosa.
Non è mai stato un partito personale, il Pci-Pds-Ds-Pd, ha sempre prevalso il Partito sul Capo: ma dopo Renzi, sono spariti i leader, non dico come Togliatti e Berlinguer, ma anche quelli più recenti come D’Alema e Veltroni e in parte Bersani. Non ha poi una linea politica autonoma perché da un verso è Partito-Regime, espressione dell’establishment; dall’altro si modifica in base alle alleanze, facendosi ora para-grillino, ora para-draghiano.
E non ha più un’anima politica, un’identità sociale, perché da troppi anni, almeno dall’antiberlusconismo in poi, vive solo del fiele verso il Nemico da battere. Così le sue costanti politiche degli ultimi anni sono diventate le battaglie per i diritti civili di omotransessuali, coppie gay, pro aborto, pro-vaccino, ecc.; la difesa dei migranti e della filiera che li rappresenta; l’antifascismo permanente. Si tratta di tre sostituzioni rispetto alla sinistra venuta dal comunismo. I primi sostituiscono gli oppressi e gli sfruttati, i secondi sostituiscono il proletariato e la classe operaia, il terzo sostituisce l’anticapitalismo. Così la sinistra dem si è fatta radical, liberal, seguace bigotta del politically correct, neoborghese, impopolare. E sempre presuntuosa.
Al di là dello spettacolo presente non credo che la sinistra sparirà; è più probabile che prima o poi troverà un leader, una situazione favorevole e una linea su cui ritrovarsi. Ma oggi è davvero imbarazzante parlarne. Quindi, scusatemi, ritiro tutto quel che ho detto…
La Verità – 13 gennaio 2023
Lite tra cadaveri nell’obitorio del Pd