DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: ” La vita solitaria di Giuseppe Prezzolini e una società umana che rassomigli a un’osteria”

Il 27 gennaio del 1958 Giuseppe Prezzolini si trovava nella sua soffitta newyorkese, in cima a un palazzo di dieci piani a Manhattan. Era il giorno del suo settantaseiesimo compleanno. Anziano e un po’ acciaccato, Prezzolini vagheggiava soddisfatto la felice idea di non farsi festeggiare da nessuno. In solitudine, si godeva il suo bicchiere di vino e lo sorseggiava mentre completava il suo pasto frugale con addosso una coperta che gli dava conforto dal freddo, mentre continuava a ragionare sulle cose del mondo.

A seguito della ricezione, da parte di Prezzolini, di una lettera inviatagli da un ufficio municipale newyorkese, che gli intimava di lasciare entro quattro giorni quella soffitta in cui visse per quasi vent’anni, perché ritenuta “inabitabile”, “illegale”, tale che “un essere umano” non fosse degno “di vivere in quelle condizioni”, lo scrittore, fortemente indispettito al riguardo, si sfogò in un articolo della sua rubrica Diario di New York, che curava per la rivista Il Borghese:

«Ma a me non importa di essere un essere umano. Mi chiamino un cane, basta che mi lascino stare dove sto bene, a modo mio. Fra poco me ne andrò. Con un padrone di casa strozzino un’intesa sarebbe sempre stata possibile; ma col “Municipio” non c’è nulla da fare».

Immaginiamoci l’ambiente angusto in cui viveva Prezzolini, lì a New York, dove occupava «ventiquattro metri quadrati con cucina, bagno, letto, tavolino e tre sedie», attorniato da scaffali di libri, giornali e carte di vario tipo, più o meno ordinate sul tavolo, e da bottiglie di birra, di vino e di whiskey.  Affascina l’immagine di quest’anziano uomo solitario che si affacciava sull’immenso panorama della metropoli dal vasto terrazzo del suo piccolo appartamento, «con vista tragica della New York meno ricca, dei tre grandi ponti che ci uniscono alla terraferma e dei due fiumi che fanno di Manhattan un’isola», il quale, magari, si soffermava in meditazione, contemplando quel paesaggio che probabilmente gli appariva anche bello. Così lontano dalla sua Italia eppure capace da lì di metterla a fuoco con dignitosa lucidità, volutamente in disparte per non farsi fagocitare dal potere corruttivo della storia, ma perfettamente in grado di sentirsene parte perché partecipe dei rapporti umani e dei destini che si elaboravano nel corso di quei decenni. Cento anni di vita anagrafica Prezzolini visse, dal 1882 al 1982, durante i quali vide scorrere tutto il Novecento, che egli dimostrò di essere capace di non subire, ma di dominare con energica intelligenza.

Ci viene facilmente in mente la tipica immagine dell’intellettuale solitario, che se ne sta in santa pace, con la predisposizione d’animo di chi preferisce trascorrere le sue ore impiegandole nella lettura, trasformando in una dimensione esistenziale ideale quello che potrebbe apparire un tormento per un forzato esilio e che si rivela, invece, il modo migliore per rispettare il silenzio, per pensare, studiare e scrivere senza distrazioni e senza frenesia.

Prezzolini si sentiva a suo agio. Nelle sue lettere sosteneva di sentirsi sempre più consapevole di quanto fosse necessario coltivare una solitudine esistenziale rigenerante. «Nessuno, come me, si rende conto della selvatichezza e del silenzio, così necessari per vivere», rivelava al sacerdote Giovanni Abbo, dimostrando di aver quasi capito che il Novecento era un secolo che per dominarlo, bisognava allontanarsene, starne proprio fisicamente distanti, tanto era forte la capacità, che avevano gli eventi, di fagocitare il singolo e di togliergli la necessaria lucidità analitica per mantenere una coscienza identitaria soggettiva. 

La rubrica che Prezzolini curava per Il Borghese era seguitissima e molto apprezzata. Meno apprezzabile sembra che fosse il suo carattere, stando a quanto lui stesso diceva di sé nel 1959:  «Le piccinerie mi seccano […] l’ostilità mi fa perdere tempo, i ritardi mi disturbano, la mancanza di parola mi irrita, il cattivo tempo mi mette di mal umore, le malattie mi sembrano la punizione di un errore, il disordine mi fa reazionario, l’ignoranza mi disgusta, l’ingiustizia mi spinge all’anarchia; ma più di tutti detesto gli orgogliosi, i vanesi, gli ottimisti, i soddisfatti, e quelli che fanno piani universali per garantire la felicità universale. Detesto i salvatori del mondo».

Così invece si esprimeva nel 1974: «Calendario non ho nel corpo, nello spirito e nemmeno nelle relazioni sociali. Distinguo i giorni fra quelli in cui incontro un amico, e quelli in cui non incontro nessuno. Nemici non incontro, ma li scontro».

Colpisce, in particolare, questo bisogno di marcare con fermezza una differenza identitaria tra gli amici e i nemici, per riconoscerne, quasi tipologicamente, la funzione che essi avevano nella sua vita e per definirne in maniera sempre costruttiva il tipo di relazione che Prezzolini intendeva instaurare con loro.

Gli “avversari” aveva sempre avuto bisogno di rispettarli. Li aveva definiti “l’aspetto migliore della mia vita”. In una pagina del 1948, parlando dei “nemici”, Prezzolini aveva detto: «Li ho sempre rispettati e riconosciuti per quello che valevano, anche se avevano tentato di farmi male sul serio, tipo Jahier e Salvemini. Domani mi capiterà di leggere qualche parolaccia di Croce contro di me, ma io lo considererò sempre come un uomo di primo ordine. Tengo piuttosto alla stima mia interna verso di me, che a quella esterna di Croce o di Jahier o di Salvemini».

Significativa appare la sincerità con la quale Prezzolini osservava alcune contraddizioni che egli ravvisava nell’atteggiamento di chi si propone come un critico. Diceva lo scrittore nel 1962: «Mi domando se sia possibile esser critico, senza esser un po’ cattivo. Criticare vuol dire definire e quindi limitare una persona, e ciò dispiace o duole o fa soffrire il criticato ossia il limitato, perché l’uomo, che è illimitato sempre nei suoi desideri, si sente offeso dalla sorte o dalla critica quando gli segnalano i suoi limiti».

E ancora:

«La mia regola è stata sempre quella di dare il minimo fastidio possibile agli amici e il massimo ai nemici». «[Ho] sempre avuto la chiarezza della parola come supremo scopo». Forse, diceva Prezzolini, «la società umana sarebbe poco gradevole se tutti seguissero il mio ideale di dir tutto quello che intendono dire col numero minimo di parole necessario e quindi senza complimenti. La società rassomiglierebbe piuttosto ad una osteria che ad un albergo di lusso».

Un bisogno fortissimo di prendere la vita di petto e di affrontarla senza alterazioni, quindi, dicendo le cose per come stanno, guardando ai fatti con uno sguardo asettico che rifugge da quella edulcorante ipocrisia retorica diffusa nel mondo che, è evidente, lo scrittore disdegnava fortemente.  Il pensiero di Prezzolini era reso lucido dall’esperienza del mondo che, da uomo anziano, lo arricchiva, acuendone il disprezzo verso le cose marginali e poco rilevanti, gli scarti, e che lui, in maniera accorta, rimuoveva dalla sua vita senza mezzi termini.  Sarebbe davvero poco gradevole una società umana così come la prospettava Prezzolini?

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