LA POESIA DI GIORGIO BONGIORNO: “Quando erano i nostri”

A partire
Ammassati
“ammonticchiati come giumenti”
Su piroscafi
Che facevano diventar grigio
Tutto uguale
Anche il mare azzurro
Con quella gente rassegnata
Nelle lunghe giornate di tempesta
Su e giù
Montagne di onde
A vomitare schiuma
Biancastra
Come la nostalgia di casa
L’odore della terra
Di uomini già stanchi
E donne con gli occhi ancora lucidi
Dell’ultimo commiato
Il rumore dei loro cuori
La festa dell’approdo
Il sogno di qualcuno
A baciare la nuova terra
Sconosciuta
Mistero
Fra le nebbie nell’oceano
Del mattino
E all’orizzonte
Colorata dai gabbiani e dal sole
D’America
L’immagine insistente
Di un paese lontano
Le case di sempre
E un grande faggio
Dietro la radura
Poi
L’ultimo bacio
Rubato di corsa
All’alba
E forse una lacrima
Portata via dal vento
Prima dell’addio

4 commenti su “LA POESIA DI GIORGIO BONGIORNO: “Quando erano i nostri”

  1. Grazie Gianni della tua testomonianza e del valor dei tuoi ricordi.
    Si chiamavano speranza quei sacrifici e la sofferenza che li animava era l’angoscia del distacco . Una specie di ripetuta e insistente elegia del commiato antica come il mondo e tagliente come una lama fresca di affilatura.
    Ma al di sopra del dolore , abbastanza comune in quegli anni,una grande dose di dignità e di nobile orgoglio.
    Quella promessa che facevano a se stessi di rimanere, nonostante tutto, “Italiani”.

  2. Aggiungo per informazione che la Fondazione Ellis Island ha il Museo dell’immigrazione sull’isola. In 50 anni sono passati oltre 12 milioni di immigrati e solo un 2% fu respinto.
    Gli immigrati che dovevano fermarsi ed usufruire dei servizi, camera, cure mediche, cibo, dovevano pagarsele.
    L’isola era chiamata anche Tears Island, per ricordare il pianto di chi arrivava in una terra sconosciuta lasciando il proprio Paese e anche il pianto di chi veniva rifiutato o maltrattato. In realtà i maltrattamenti furono sporadici.

  3. Bellissimo ricordo dei nostri emigrati, quelli veri, che andavano a cercar lavoro e fortuna in America ed in altri Paesi, che li accoglievano e su integravano in lavori e attività utili, di cui l’America aveva bisogno.
    Un mio zio, dal Montello, approdo’ ad Ellis Island a New York in quarantena,nel 1907,credo, e poi fece vari lavori. Gli Italiani, come gran parte degli emigranti, erano discriminati, non certo come la Paola Egonu, di più. Ed erano solo un gradino sopra i ‘negri’. Un po’ rispettati solo per la nostra storia e cultura.
    Dopo qualche anno di lettere scritte a casa per tenere i contatti, mio zio non scrisse più, non si fece più vivo. Dopo molti anni la famiglia lo credette forse morto e i parenti se lo dimenticarono. Senonche’ negli anni ’70 con una lettera ad un vecchio parente riappare.
    Spiegando che era un vecchio pensionato USA, dopo molti anni di lavoro con buoni guadagni, vista l’ età voleva rivedere il oaese natio e i parenti rimasti. Così fece e venne due volte in Italia facendo regali un po’ a tutti e due grandi pranzi per tutti. Un vero ricco zio d’America.
    Nel secondo viaggio portò con sé la figlia adottiva, perché credo non avesse avuto figli, ma lui voleva fortemente una famiglia, da buon italiano. Ed americano che quel Paese aveva contribuito a costruire.
    Il suo nome come quello di moltissimi italiani e di tutti gli immigrati registrati passati da Ellis Island, è ora inciso su un muro lunghissimo lungo un ponte, dedicato a tutti gli immigrati che costruirono l’America, a cura della Fondazione Ellis Island Organization. A testimonianza di tanti sacrifici, lavoro onesto e conservazione della umanità e dei principi non negoziabili.

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