Siamo in tanti a provare la stessa impressione di sconforto, la stessa sensazione di inutilità soggettiva di fronte ad eventi che non riusciamo a modificare e nemmeno minimamente a condizionare. Ci chiediamo che fine abbia fatto la democrazia, la partecipazione, la volontà collettiva e soggettiva di contribuire al bene comune, da cittadini impegnati e coscienti.
Probabilmente non sarebbe qui necessario spiegare che è la guerra in atto a infliggerci questa profonda frustrazione. Una guerra di cui siamo parte e, seppure non responsabili del suo inizio, corresponsabili della sua prosecuzione, poiché forniamo aiuti ed armi ad uno dei contendenti.
La nostra Costituzione Repubblicana ne risulta disattesa, violata. Le motivazioni di ciò, inammissibili a fronte del principio del “ripudio della guerra”, sono malamente sorrette da pretesti di supremazia politica fra grandi potenze, per le quali i nostri principi costituzionali sono irrilevanti, mentre per noi sono o dovrebbero essere irrinunciabili e assolutamente cogenti. Mentre celebriamo in tutte le sedi e ad ogni occasione questa nostra Costituzione, la rinneghiamo senza vergogna marciando decisi verso un abisso di contraddizioni e di totale irragionevolezza.
Il male oscuro da cui ci lasciamo trascinare è nella crisi della democrazia, intenzionalmente attaccata ed erosa a livello planetario da una serie di eventi e manovre convergenti verso il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale.
Occorrerebbe enumerare ed enunciare con ordine cronologico, storico e geopolitico i fattori intenzionali che hanno eroso la democrazia. Delle pubblicazioni sull’argomento ne sono ormai piene le biblioteche: forse sono migliaia i saggi che descrivono e narrano l’affossamento della democrazia, che ne celebrano il “de profundis”, cui pochi e inascoltati profeti tentarono di anteporre i richiami della coscienza per salvare il salvabile.
Come troppo spesso accade, la storia si scrive sulle macerie. Mi limito a qualche spunto significativo in cui vedo perlomeno alcune radici del disastro. Gli USA si attribuirono unilateralmente un ruolo di difensori e diffusori della democrazia, dal secondo conflitto mondiale in poi e in ogni parte del mondo. Una diffusione affidata alle armi e ai bombardieri d’alta quota.
Presumere che la democrazia si potesse diffondere efficacemente con la guerra è, a dir poco, opinabile. E va poi considerato di quale democrazia potevano essere diffusori gli USA. Non mi riferisco al concetto di democrazia come consapevolezza profonda della partecipazione civica che caratterizza la cultura e la civiltà di un consorzio umano, quindi una democrazia sostanziale, non sempre raggiunta nemmeno nei contesti di più antica tradizione democratica.
Mi riferisco alla più semplice e basilare espressione di “democrazia rappresentativa”, quella espressa dal voto, come diritto individuale. Sembra a noi europei che il diritto individuale al voto sia naturalmente legato alla condizione giuridica determinata dall’essere cittadino, al raggiungimento della maggiore età.
Negli Stati Uniti non è così: l’inclusione nelle liste elettorali non è conseguenza automatica della cittadinanza. Il cittadino può votare solo dopo aver deciso di iscriversi alle liste elettorali. L’accesso al voto è ricondotto semplicemente ad una libera scelta, del tutto facoltativa e nemmeno raccomandata. Non si iscrivono quindi alle liste elettorali i cittadini dei ceti popolari, i poveri, gli immigrati, le minoranze etniche, le fasce di popolazione poco scolarizzate che non padroneggiano sufficientemente l’uso della lingua inglese. Nemmeno ci pensano. Non ne conoscono il valore e non ne avvertono la necessità.
Ne consegue che il presidente degli Stati Uniti è eletto da una minoranza della popolazione, talvolta da poco più del 25% di coloro che, se si votasse come in Europa, avrebbero titolo a farlo. Le possibilità di vittoria sono nelle mani dei ceti privilegiati ed in particolare di quelli sostenuti o fiancheggiati da poteri economici in grado di finanziare campagne elettorali per cui si spendono miliardi di dollari.
Vi è quindi una distanza abissale tra la “cosiddetta democrazia USA” e quella europea. Di più: una democrazia formale ridotta ad un eventuale adempimento elettorale, privo alla base di un’etica civica, di una cultura della partecipazione che ne sostanzi il valore e la motivazione, sembra aver poco a che fare con alcunché di democratico.
Lecito chiedersi se è questa una democrazia meritevole di diffusione, men che meno al prezzo di sangue versato. E se la diffusione di una democrazia di tal fatta non danneggi il senso autentico della democrazia vera o contribuisca addirittura a metterla in crisi.
Anche la democrazia europea ha subito un forte ridimensionamento con il varo dell’Unione Europea. Non è stata soltanto la conseguenza di una aumentata distanza fra i cittadini elettori e i centri decisionali della Comunità. C’è stata la delusione legata alla fallimentare invenzione della moneta unica che ha ridotto il potere d’acquisto. C’è stata l’espropriazione di un protagonismo politico e legislativo, sostituito dalle direttive comunitarie che esprimono all’ottanta per cento la potestà legislativa della Comunità, relegando le funzioni dei singoli paesi ad un risicato venti per cento della produzione normativa.
E la guerra di cui abbiamo parlato in apertura, per il tramite della NATO e della politica atlantica riduce la UE ad esecutore di una politica USA, come al solito aggressiva e bellicista. Né sembra che nemmeno uno dei paesi europei sia in grado di rivendicare una propria libertà d’opinione, una propria autonomia decisionale di fronte ad un coinvolgimento in una guerra che ci vede esecutori passivi di politiche ed interessi altrui.
Guida questa guerra l’esportatore mondiale di presunta democrazia, che usa il suolo ucraino come teatro di uno scontro con l’altra grande potenza mondiale, la Russia, che si è lasciata improvvidamente coinvolgere nel ruolo di aggressore, lungamente a tal fine provocato da chi doveva poi ammantarsi da difensore dei deboli. Non ha più qui nemmeno senso rigirare il ferro nella ferita, o continuare a intingere la penna nel pianto.
Gli europei, stretti nella tenaglia fra la cosiddetta democrazia USA e la sempre più debole democrazia della UE, subiscono supinamente una guerra che li danneggia e ne pagano le spese, in una condizione che sta tra l’asservimento e la stupidità più acefala.
Occorre uno scatto d’orgoglio, un anelito di verità che induca a levarci in piedi, a difendere la nostra libertà, a ripristinare un’etica. A salvare la pace. Siamo sul “limite del non ritorno”. Quel “limite” che leggo inciso in lingua spagnola sulla copertina di una mia agenda: “Haz que el mundo sea un poco màs hermoso y mejor por haber vivido tù en él”. Fai che il mondo possa essere un poco migliore per averne tu fatto parte. Un miglioramento infinitesimale, quello che ogni libera e soggettiva coscienza può addurre al contesto, al limite dell’impossibile. Ma ciascuno può ripartire solo dal punto in cui si trova.
Vittorio Zedda
Mi associo anche io alla valutazione entusiasta di quest’articolo di cui condivido l’appello al miglioramento attraverso le coscienze individuali e a livello soggettivo. Apriamoci e apriamo le coscienze.
Complimenti Vittorio! Bellissimo e condivisibile articolo che mette ancora di più in evidenza come siamo stretti tra una democrazia monca e autoritaria come quella degli USA e una democrazia malata come quella dell’ Unione Europea.
Grazie, caro Enrico, per la condivisione. Era un argomento che mi procurava angustia e sconforto e che continua a darmi una sensazione di intima sconfitta di fronte ad un potere politico che ci annichilisce e ci opprime. Mi auguro che la Casa della Civiltà , che è uno spazio libero di partecipazione consapevole e di coscienza civica, possa raccogliere uno sforzo comune di recupero e difesa di una democrazia autentica, che certo non è quella vilipesa e ridotta a penoso pretesto bellicista da chi usa un’alleanza originariamente difensiva per farne strumento di asservimento e odioso dominio. Su un intento di libertà e verità occorrerà ricompattare un impegno comune, realistico e costruttivo, senza mai abdicare ad una profonda convinzione e ad una inespugnabile speranza.