VITTORIO ZEDDA: “25 aprile, in un ricordo personale”

Nel 1945 avevo 5 anni. Vivevo, in quei tempi, tra giochi e paure. Ho imparato allora che un bambino può capire chiaramente quel che vede e che sente, attorno a sé. E può intuire quel che succede, anche dai silenzi, dalla tensione degli adulti. Dai loro pianti e dallo loro rabbia. Dai loro discorsi, talvolta sommessi, origliati.

Aldilà delle celebrazioni altisonanti e di maniera, oltre la retorica politica dei proclami ripetuti ad ogni celebrazione della Resistenza, oltre la commozione per i drammi, il sangue, le vite perdute e gli eroismi, c’è un “25 aprile” dei ricordi personali, non meno importante della storia scritta dopo, e, forse, di quella anche più vera. Quella storia che ci rimane dentro e quindi non fa storia, sparisce e si perde con noi.

Ho in casa qualcosa che è, per me, memoria di quell’epoca. È un quadro a ceramica, fatto, dipinto e poi donato a mio padre da un suo caro amico. Entrambi erano sottufficiali della Regia Aeronautica Militare. Rappresenta una delicatissima Madonna, non convenzionale, per disegno e colori. Quell’amico di papà era Dario Tarantino, che dopo l’8 settembre 1943, trovandosi al nord, scelse di abbandonare la divisa per fare il partigiano. Divenne il “Comandante Massimo” e morì tragicamente a Milano, catturato dai fascisti. C’è il suo nome su una lapide, murata su un palazzo, nella zona ovest della città.

Sul retro del quadro una affettuosa, poetica dedica di Dario,tuttora leggibile: è un regalo a mio padre per la nascita della mia sorellina. È l’autografo di un eroe.

Ho ritrovato su internet l’immagine di Dario, quando ancora vestiva la divisa: è una copia della stessa foto che ho io, tra i cimeli di famiglia, tra altre foto che lo ritraggono assieme a mio padre, entrambi giovani allora, belli, eleganti e scanzonati.

Sono, questi, documenti di un passato, che oggi ha la luce di un’epopea gloriosa. Ma il mio ricordo di quegli anni non è per niente esaltante. Durante la guerra vivevamo “sfollati”, come si diceva allora, in un piccolo borgo agricolo della pianura emiliana, presso Parma. Mio padre aveva fatto una scelta non meno rischiosa di quella di Dario. Non aveva aderito alla repubblica di Salò, rifiutando di passare dall’Aeronautica Regia a quella Repubblicana (o Repubblichina, come si diceva allora). Aveva giurato fedeltà al Re, diceva. Era rimasto a casa accanto alla moglie e ai suoi due bambini, cui doveva in qualche modo provvedere. Un giorno una compagnia di soldati tedeschi occupò il piccolo borgo e ci rimase a lungo. Fu l’inizio di un incubo. Di notte un sogno ricorrente mi agitava: temevo che i tedeschi portassero via mio padre. E invece mio padre, con quella sua incredibile arte del “sopravvivere” e rimediare a qualsiasi rovescio del destino, riuscì, senza nascondersi, a non farsi deportare, a trovare un modus vivendi con gli invasori, presenti nella stessa casa, facendosi rispettare. E però sentivo l’angoscia dei familiari e mia, ogni giorno. E la notte, di più. Quei soldati mettevano paura, ma mostravano rispetto per noi. Due di loro, forse graduati, chiedevano spesso di entrare in casa nostra per ascoltare la grossa radio che era nel soggiorno. Battevano i tacchi sulla soglia, chiedevano “permesso” e lasciavano fuori dall’uscio appoggiati al muro i fucili. Io, bambinetto, girellavo attorno a quelle armi che mi incuriosivano, tenendo ostentatamente le mani dietro la schiena, per far vedere che non toccavo nulla. Dalla porta aperta vedevo i due militari che cercavano di sintonizzare l’apparecchio su “Radio Londra” e su stazioni in lingua tedesca. Assistevo alle loro adunate, nel nostro giardino, mentre il loro comandante teneva loro i suoi incomprensibili discorsi, e sembrava che li redarguisse. Apparivano stanchi, tristi, rassegnati. C’era fra loro il soldato Willy, nei miei ricordi gigantesco. Talvolta mi portava a passeggio tenendomi per mano. Camminavamo in silenzio. Aveva, tra le sue cose, nel fienile, una valigia piena di giocattoli. Ogni tanto l’apriva e me ne regalava uno. Furono i miei primi giocattoli: in tempo di guerra non ce n’erano. Willy li aveva presi per i suoi figli, ma poiché, diceva, in Germania non sarebbe mai arrivato vivo, li regalava a me. Presagiva la sua fine, e questo me lo raccontò anni dopo mia madre, confermando i miei ricordi.

Com’erano arrivati, i tedeschi sparirono all’improvviso, un mattino all’alba. Pochi giorni dopo arrivarono i “ribelli”. Così li chiamavano allora, i partigiani. Due di loro, facce pallide e barbe nere, fecero irruzione in casa nostra con le armi spianate. Volevano cibo. Ricordo tutti gli adulti di famiglia, ritti immobili di fronte a loro, impietriti. E noi bambini, fra loro. Ci fecero più paura dei tedeschi. Forse perché dei ribelli non si sapeva nulla, e ci parvero freddi e minacciosi.

Si portarono via dell’olio di oliva, ché molto di più non avevamo in casa. Non li vedemmo più. Ma noi bambini sentivamo i discorsi dei “grandi”, che per mesi riferivano di vendette, saccheggi, rappresaglie, rese dei conti, violenze attribuite ai ribelli, in quelle campagne. C’era una cupa aria di pericolo, nella quale alla paura dei tedeschi e dei fascisti, s’era sostituita, in quella piccola comunità di contadini, il timore dei partigiani. Io non capivo allora chi fossero i buoni e i cattivi. Ma qualche giorno dopo mi sembrò che il confronto fosse tra cattivi e “più cattivi”. In una mattina di sole, all’aperto, guardavo con mio padre un cielo azzurro pieno di aerei argentei, che volavano altissimi a centinaia, con un rombo cupo, tutti nella stessa direzione. Erano inglesi e americani. Mai più visti così tanti aerei volare tutti assieme, nemmeno nei film. Chiesi: «Vanno a bombardare? Dove?». «Vanno verso la Germania, ormai è finita» ‐disse mio padre. Poi, chinò il capo e disse: «I fascisti hanno ucciso Tarantino. Gli hanno cavato gli occhi e tagliato le mani». Rimasi impressionato, sia per quello che mi aveva detto, sia perché aveva detto una cosa così spaventosa proprio a me, che ero un bambino. E ancora mi chiedo perché. Forse la risposta era in un orrore, che pareva essere diventato quotidiano, impossibile da nascondere. Chissà quante altre famiglie, in Italia, custodiscono il ricordo di un congiunto o di un amico, caduto nella guerra partigiana, dall’una e dall’altra parte. Papà aveva un’immensa stima del suo amico Tarantino. Se c’è qualcosa nei miei ricordi, in quella mia piccola parte di storia personale, che ha riscattato il senso di quegli avvenimenti e di quell’epoca triste, è l’immagine di quel giovane sottufficiale, il cui nome rimane ora su una lapide e negli archivi della Resistenza. È il nome di quell’eroe gentile che è scritto di suo pugno, e che conservo, sotto una tenerissima dedica per una bimba appena nata.

(Testo pubblicato il 25 aprile 2019)

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