VITTORIO ZEDDA: “Il cammino della Storia, tra onore e disonore”

Ad ogni 25 aprile, “Festa della Liberazione”, o nei giorni precedenti o seguenti, regolarmente compare in televisione, o su qualche giornale o sito internet, la tristemente famosa fotografia dei cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti fucilati, appesi a testa in giù in piazzale Loreto, a Milano.

La data di quella macabra esposizione non coincide però con quella della “festa”. E opportunamente, va detto. Fucilati il giorno 28, i corpi dei personaggi uccisi vennero così esibiti alla folla il 29 aprile 1945. È un’immagine storica che ormai tutti conoscono, e certo non lascia indifferenti, qualunque sia la prospettiva ideologica dell’osservatore.
Rimane il documento e il simbolo della fine d’un’epoca. Se lo consideriamo in ogni suo possibile significato, quel tipo di evento pubblico anche disgiunto dallo specifico fatto che rappresenta, può riportare alla memoria altri episodi della Storia, in qualche modo a quello affini in quanto segnati da comportamenti efferati che, a distanza di secoli, paiono reiterare i caratteri di una disumanità mai sopita, che il tempo non corregge e la presunta evoluzione della civiltà umana non riesce a superare.

Si tratta di eventi storici dei quali si tramanda e descrive l’epilogo esistenziale di personaggi che erano stati capaci di suscitare l’entusiasmo inebriante, l’ammirazione incondizionata del popolo, al punto di diventarne condottieri o capi assoluti, ma trasformando talvolta, nel volgere di pochi anni, il potere acquisito in forme antipopolari di dura oppressione, vessazione politica e libertà negata.
Dittatori, quindi, che per mano di quelle stesse masse popolari che avevano sedotto e guidato, furono travolti e poi abbattuti, in un tripudio liberatorio di rivalsa, di ricercata giustizia, o di opportunismo, di vendetta e incontenibile ferocia.

Basterebbe ricordare Masaniello, e la sua singolare vicenda umana, che però fu oggetto di un postumo riconoscimento.
Singolarmente premonitrice fu invece la storia di Cola di Rienzo, che nei suoi ultimi giorni e negli accadimenti che ne segnarono le ultime ore, sembrò anticipare stranamente, o forse no, molti dei “passaggi “che in sequenza quasi prefigurarono quella che sarebbe stata la fine di Mussolini.
Paiono oggi tante le coincidenze, fra i due personaggi. Cola, preda del suo stesso delirio di gloria, del suo sogno di restaurare l’antica grandezza di Roma, muove l’entusiasmo popolare. Di nuovo Cola, che nel momento della ribellione popolare contro il suo arbitrio e ai suoi eccessi, fugge travestito sperando di salvarsi.

Sei secoli più tardi, Mussolini fuggirà, nei suoi ultimi giorni, travestito da soldato tedesco. E non si salverà, come Cola. Ancora Cola riconosciuto e catturato, dapprima senza che alcuno gli torcesse un capello, perché il personaggio era di tale rilievo che «nullo omo era ardito toccarelo». Ma all’improvviso questo riguardo cessa, e una lama sguainata gli squarcia il ventre. Il tutto accadeva sulla scalone antistante palazzo Colonna, a Roma, nel 1354. E poco dopo il primo colpo, quanti altri inferti da quelli che erano stati suoi sostenitori.
Costoro, diventati nemici carichi d’odio, furono addosso a Cola e, già morto, continuarono a percuoterlo e lo crivellarono di colpi, fra ingiurie e grida. «Allora l’uno, l’altro e li altri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette…Alla prima morìo, pena non sentìo.» (dalla “Cronica” di un anonimo romano del XIV secolo, nella parlata popolare dell’epoca).
Lo scempio del cadavere durò ore, fino a ridurlo alla stregua di «un grosso bue macellato». E poi legato per i piedi e appeso abbastanza in alto, perché tutti potessero vedere la miserabile fine di Cola di Rienzo.

Un’ immagine medioevale che pare riproporsi sei secoli dopo. Sei secoli In cui l’umanità e la disumanità sia dei potenti sia del popolo non sembrano mutati. Quante analogie con la fine di Mussolini. Molti personaggi di rilievo della Resistenza contro il nazi-fascismo presero però le distanze, e alcuni con estrema durezza, dal truce spettacolo rappresentato da quei cadaveri di cui si era fatto scempio, appesi in piazza Loreto.
E se pure ai fascisti poteva esser fatto carico di aver sostenuto un regime e relative violenze e delitti efferati, ci fu chi fra gli uomini della Resistenza, di fronte a quei fatti, non volle accampare valutazioni “giustificazioniste” e soprattutto non volle abdicare al proprio senso dell’onore.
Anche perché non si voleva che l’orrore di quella piazza oscurasse non solo l’insurrezione, ma anche i nomi di coloro che, per alti e limpidi ideali, avevano sacrificato la propria vita.

A ragione possiamo citare come esempio fra tanti, il nome di Salvo D’Acquisto. Come non ricordare Ferruccio Parri che definì quel che avvenne a piazza Loreto «esibizione da macelleria messicana».
Lo stesso Sandro Pertini, che diventerà poi Presidente della Repubblica, di fronte a quella scena disse che l’insurrezione si era «disonorata».
In un manifesto fatto affiggere a cura del CNL (Comitato di Liberazione Nazionale) in quei giorni, nel quale era scritto che in ogni caso l’orrore di piazza Loreto trovava origine nella responsabilità del fascismo e di Mussolini, si faceva comunque cenno alla «esplosione di odio popolare che è trasceso in quest’ultima occasione a eccessi…».
Il giornale socialista “Avanti!” commentò: «Ieri in una luminosa giornata di sole si è svolto uno spettacolo orribile. Necessario come tanti orribili supplizi …»
E il partigiano “Lampredi” (nome di battaglia), che forse assistette o partecipò alla fucilazione di Mussolini, affermò: «La Resistenza non attinge a piazzale Loreto per fissare le immagini della sua vittoria».
Un modo elegante con cui, senza rinnegare l’orgoglio per l’eliminazione del duce, prendeva le distanze dallo scempio del cadavere esibito. Qualcuno si lasciò anche andare ad un’autocritica ancora più esplicita e dura, esprimendo un atroce dubbio.
Fu Leo Valiani, personaggio inattaccabile e di spicco della Resistenza, che disse di non poter escludere con certezza che «quella folla che insultava il corpo morto del duce non fosse la medesima delle adunate oceaniche», quelle che acclamavano entusiasticamente Mussolini all’apice della sua vicenda politica.
A parte il dubbio certamente fondato di Valiani, a chi ancora vede e usa l’immagine dei cadaveri appesi come emblema “glorioso” dell’epopea resistenziale, consiglierei almeno di riflettere sulla frase di “Lampredi” secondo cui, e vale la pena ripeterlo, «la resistenza non attinge a piazzale Loreto per fissare le immagini della sua vittoria.»

Se quasi ottant’anni dopo c’è ancora qualcuno che non l’ha capito, non è solo una questione di manifesti o di raffigurazioni polemiche. Chi ancora oggi usa l’immagine di un politico a lui sgradito, effigiandolo appeso a testa in giù, sembra voler dimostrare, a torto, che non c’è stata nemmeno la vittoria dei valori della Resistenza, a cominciare dalla riconquista della democrazia e della civile convivenza. Valori autentici, avulsi dall’estremismo e dalla faziosità, su cui si può appuntare, discernendo però con cura nella Storia solamente i personaggi e i fatti che lo meritano, il dovuto riconoscimento.


Vittorio Zedda
Milano, 18 aprile 2024

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