MARCELLO VENEZIANI: “L’epoca del nostro scontento”

Il Corriere della Sera – La riflessione di Andrea Carandini su questi tempi incerti a partire dal saggio di Marcello Veneziani (Marsilio)

Siamo scontenti di noi e della civiltà moderna… Lo scontento non riguarda solo disuguaglianze e disagi dal momento che pervade anche gli agiati. Siamo longevi e benestanti, abbiamo tecniche e farmaci efficaci, eppure in ogni ceto viviamo male. Lo scontento è ormai una condizione universale, che in Occidente si declina in modo peculiare. La scontentezza non è l’infelicità, perché riguarda anche il contesto; non è neppure la mestizia, la melancolia e l’inquietudine che non portano all’animosità propria dei non contenti.

Un tempo la politica induceva ad accontentarsi — il peggio era a portata di mano — mentre oggi desta insoddisfazioni stabili per quanto siamo, facciamo e abbiamo, asservendoci a desideri e consumi illimitati che alienano. È un malessere individuale e sociale tipico della modernità, che riguarda i rapporti umani e istituzionali, la preminenza della tecnica e dell’economia sulla cultura, aggravati da pandemia, emergenza ambientale, diseguaglianza e guerra.

Lo scontento è uno stato d’incompiutezza che non trova sbocco religioso e che sfocia in malcontento o ribellione, anche se nessuna rivoluzione ha liberato dalla scontentezza, perché essa non dipende solo da oppressioni e ingiustizie essendo un male interiore e generale, psichico e antropologico. Lo scontento è un alieno che si dice: «Sono più di quel che la vita mi dà riguardo a corpo, età, sesso, famiglia, status, religione e aspettativa».

Gli antichi ignoravano invece la scontentezza: i più si rassegnavano sobriamente e facilmente a istituzioni, eventi e realtà: avevano meno pretese che amor Fati. Il latino ha il termine contentus — «colui che si contiene» — che equivale a essere tenuemente ma durevolmente contenti. Eppure i Romani non avevano il termine contrario equivalente a «scontento». Il potere imperiale non voleva cittadini scontenti: dava pane e circensi, oltre a incutere paura. Il cittadino ideale di oggi, al contrario, deve cambiare tutto: status, legami, natura, sesso, luogo d’origine, case, cose e apparati tecnologici, spostando in avanti i traguardi e acuendo le mancanze da esaudire.

Il flusso ininterrotto è l’opposto dell’identità. Se popoli e deboli perdono il patrimonio primario non si riconoscono più e si sentono soli tra consumi, periferie, rifiuti e rivolgimenti globali. Il tempo libero è un vuoto da riempire con merci, appetiti e servizi più disparati. Il desiderio ha sostituito ormai il destino, passando dall’identità alla fluttuazione, entro vite liquide, domicili provvisori, lavori precari. Senza più princìpi, lealtà e coerenze c’inoltriamo in un vuoto di punti fermi, di legami di provenienza, di orizzonti di aspettativa, di imperativi morali… È la libertà dei capricci maniacalmente inseguiti che sottopone al giogo dello scontento.

Più tempo libero e mezzi hanno portato a meno cultura e più si è benestanti più sontuosamente si può essere ignoranti: l’opulenza favorisce pigrizia, ricerca di piaceri volgari e dipendenza da distrazioni. Negli Stati Uniti il David di Michelangelo è stato preso di recente per una immagine porno: siamo — gli Stati Uniti fanno parte del nostro mondo intercontinentale — il contrario di ciò che siamo stati… Ma la cultura è la sola energia realmente emancipatrice, che la scuola distrutta più non suscita. Intanto dilagano le banalità degli ignoranti e le trasgressioni dei sapienti, accomunate nel disgusto per la civiltà occidentale, per cui saremmo noi i responsabili di gran parte del male del mondo (mentre Putin cerca colonie e stati vassalli come un imperatore).

La modernità è il tempo, l’Occidente il luogo e la massa il soggetto dello scontento: insoddisfatta dal finito e dell’incompiuto, naviga nell’infinito, sentendosi onnipotente. Il patrono della modernità è Faust, a cui Mefistofele dà ogni potenza. I primi movimenti verso lo scontento sono stati lo Sturm und Drang e il Romanticismo, che hanno amato quanto non c’era, le contraddizioni e le confusioni che sono i volti delle emozioni… Nell’antichità certamente vi erano superuomini che imitavano gli eroi greci — sommamente amorali e arazionali (Brelich) —, come i tiranni arcaici e quelli imperiali. Ma i filosofi delle prime città greche — insieme ad altri saggi arcaici del globo — avevano scoperto la morale e la ragione, tacciando l’onnipotenza di tracotanza ed elogiando la misura.

Certo, lo scontento è connaturato al Sapiens, perché da sempre divorato e rinvivito da fedi, emozioni e desideri. Ma questo vizio in grado di mutarsi in virtù non è rimasto nella storia uguale: prima l’ordine del Fato retto da Zeus; poi la salvezza di quel grande impaziente — se comparato ai profeti — che volle il Messiah subito e il regno di Dio in terra entro una generazione… Così Gesù ha sfasciato il tempo ciclico degli antichi e ha costruito il tempo unilineare: ufficialmente dalla fine del IV secolo d.C., quando il paganesimo fu abolito. È come se il cristianesimo avesse detto al globo: «Non affliggetevi e contentatevi: l’infinito covatevelo pure in questa terra vivendo tuttavia nel bene, perché lo raggiungerete solamente in cielo».

La rivoluzione industriale ha ucciso Dio e gli umani hanno cominciato a trasferire l’infinito dal cielo sul pianeta. Allora il reale divisibile e il fantastico indivisibile hanno cominciato a combattersi sempre più alacremente, concedendo il trionfo allo scontento. Così sono nate le ideologie del progresso, forti come fedi anche se prive dell’aldilà. Al Dio unico si è sostituito Mammona, con il suo seguito di merci e d’immondizie. Così siamo messi di fronte alla contraddizione massima: sentiamo l’infinito omogeneo e indivisibile mentre viviamo il finito e divisibile.

La scienza e la tecnica, in progresso, giustificano l’onnipotenza, che però desta anche lo scontento nel restante umanistico. Protesi nella frenesia delle soddisfazioni, abbiamo scordato i limiti chiesti dalla morale, dal valore, dai doveri, dalla saggezza, dalla bellezza e dall’educazione, naufragando nella volontà di potenza, nel nichilismo, nel relativismo, nella bruttezza, nella rabbia e nell’accidia. Desideriamo infinito ed eternità e otteniamo scontento, perché nulla vi è più che aiuti a contenere l’avidità nel saziarci, giovandoci come solo lo spirito sa fare.

Queste sono le riflessioni che ho tratto leggendo Scontenti di Marcello Veneziani (edito da Marsilio): un libro sorprendente. Ha svegliato in me una strana speranza: quella di un Faust ravveduto, capace di evocare, insieme al Mefistofele medievale, l’antico Seneca. Era questo saggio uno specialista nel recuperare il senso del limite e del destino dopo averlo quasi interamente perduto accanto a Nerone. Sapeva che gli eccessi dell’infinito vengono dalle passioni, ma sia Seneca sia la politica attuale ignorano la «contrologica» dell’inconscio.

Eppure, se s’ignora un corno del dilemma non si arriva a temperarlo grazie all’altro corno — quello della «logica» di Aristotele. L’unicorno è il male!

L’epoca del nostro scontento

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