VITTORIO ZEDDA: “La preghiera cattolica è stata sanzionata perché la scuola è luogo di cultura e non di culto. Ma non la preghiera islamica. Eppure la legge dovrebbe essere uguale per tutti”

Ho terminato 22 anni fa di fare il capo d’istituto. Fu un’esperienza di grande rilievo su cui ancora mi soffermo a riflettere, come si fa quando un compito affrontato non pare concluso. Anche se da pensionato a poco mi serve aver ancora qualche freccia al mio arco, e bersagli da centrare.
Tra i tanti, cito un dato d’esperienza che può sembrare secondario, e non è. Il dato l’avevo colto già quando ero insegnante: c’erano docenti, comunque troppi per me, che avevano una conoscenza scarsa delle norme, persino quelle basilari, che regolavano l’esercizio della professione docente nella scuola pubblica di stato. Liquidavano le questioni di contenuto giuridico come “garbugli burocratici”, irrilevanti o da aggirare.
Per me, fresco di studi sulla legislazione scolastica, per il concorso da poco vinto, quelle opinioni erano deprimenti. Ciò non di meno, nello “spirito delle leggi” sull’istruzione era ben presente l’intento giuridico di indirizzare il funzionamento dell’istituzione scuola, nella dovuta attenzione al personale scolastico, verso il conseguimento dei migliori risultati possibili, per gli alunni e la società.
Nominato Direttore Didattico, funzione poi riformata in quella di Dirigente scolastico, iniziai fin dalle prime riunioni del collegio dei docenti, a richiamare secondo criteri di contesto e di opportunità, con il garbo e le prudenze del caso, l’attenzione sulle “regole” da rispettare, motivandole e sottolineandone il sostrato tendenzialmente aperto all’innovazione e al bene comune.
Su questa lettura del rapporto fra l’apparente staticità della legge e l’istanza anche giuridica dell’innovazione, basai l’interpretazione del mio ruolo dirigenziale e poi anche la fondazione di una rinnovata forma di associazionismo professionale dei Dirigenti Scolastici. Tanto gli insegnanti quanto il dirigente, facevo notare, lavoravano alle dipendenze dello Stato, tramite una struttura operativa e amministrativa ministeriale che agiva attraverso una rete di scuole, docenti, dirigenti, personale amministrativo, uffici regionali, provinciali, ecc., opportunamente distribuiti sull’intero territorio nazionale, il tutto collocato nella rete partecipativa e promozionale degli Organi Collegiali d’ogni livello, da poco riordinati con le riforme del 1974.
La riflessione sul quadro operativo complessivo mi serviva per sottolineare la “coralità” di un compito collettivo che mirava al bene pubblico dell’Italia intera, attraverso l’istruzione dei bambini e dei ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado. La scuola, intesa come servizio che si serviva di un apparato organizzativo, ma non asservita all’apparato, era una “grande impresa” che ci vedeva, auspicabilmente, tutti impegnati, creativi e solidali verso un traguardo comune grandioso.
Pur nella libertà garantite ai vari livelli professionali, andavano rispettati ambiti, limiti e obblighi derivati dalla più ampia architettura giuridica e istituzionale di uno stato di diritto, di cui era necessario avere almeno una basilare contezza e coscienza, anche per una corretta educazione alla legalità.
Era fondamentale quindi conoscere e riflettere sulle “regole del gioco”, quando se ne manifestava l’esigenza o l’opportunità, soprattutto tenendo conto che le regole erano espresse da leggi dello Stato, alle cui dipendenze operavamo.
Poiché il quadro normativo era mosso da intenti di innovazione, era necessario avere idee precise sulle novità che ci riguardavano. Notavo e facevo notare che per quanto la riforma degli organi collegiali fosse già operativa da tre anni, all’epoca della mia nomina a Direttore didattico, una parte consistente del personale scolastico non aveva ancora un’idea chiara sugli organi collegiali, con immaginabili esiti sulla qualità della partecipazione e su diffuse espressioni di noia e di rifiuto per le ulteriori “nuove regole”, gli adempimenti, le riunioni con la presenza di genitori, e altro su cui sorvolo. In breve, il periodo “storico” della neonata “partecipazione sociale” e della “collegialità”, per quanto faticoso, mi offrì le condizioni per realizzare quella mia intenzione di far capire le “regole”, quindi le leggi, i decreti e i regolamenti, limitandomi ogni volta allo stretto necessario, in fatto di contenuti normativi, giusto per evidenziare la differenza fra regole e opinioni disinformate, che potevano alimentare polemiche dovute a mancanza di conoscenza.

Avendo quella esperienza alle spalle, ha destato in me solo una relativa sorpresa il fatto di cronaca, secondo il quale una maestra nell’anno “domini”(!) 2023 avrebbe fatto recitare delle preghiere ai suoi alunni, in aula e in orario di lezione. Ovviamente non era cosa da fare: la revisione del Concordato risale al 1984 e le relative norme applicative al 1985, e di tempo per superare antiche consuetudini e maturare nuove consapevolezze ce n’era stato. Non mi soffermo su particolari non so quanto veritieri in merito a “riti”, attribuiti a quella maestra da chi in certe polemiche ci sguazza come una mosca nel miele. Dispiace che certe cose accadano e mi suggeriscono pensieri sulla formazione professionale, non certo sulla “religione oppio dei popoli”, poiché la questione non riguarda la “religione” ma il luogo e il contesto in cui una pratica religiosa va o non va collocata.
Mi ha sorpreso la sanzione irrogata all’insegnante, ma non conoscendo il contenuto formale degli addebiti e del relativo provvedimento, mi astengo da giudizi. Come affermato e scritto in tante occasioni la “scuola è luogo di cultura” (anche religiosa), ma non di culto” che si estrinseca in atti e forme specifiche di devozione in luoghi idonei. Si tratta di cose diverse dalla “cultura religiosa” che ha e deve avere nella scuola lo spazio che le compete poiché le religioni hanno un’enorme importanza nella storia dei popoli e delle civiltà, nella cultura e nell’arte, quindi nella letteratura, la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, il teatro, la filosofia e nelle connessioni storiche con la politica, l’etica e non ultimo il Diritto.
Come nota a margine segnalo che il tanto discusso “presepe a scuola”, non è un atto liturgico e nemmeno devozionale, ma è un’antica tradizione di arte popolare, originariamente e tipicamente italiana. E’ quindi cultura, e non “offende” i musulmani per i quali Cristo è un grande profeta che non è mai morto e pertanto tornerà alla fine dei tempi, accompagnando il nuovo profeta dell’islam (il Mahdi), mentre Maometto non tornerà perché è morto. Il tutto detto in estrema sintesi.
Il presepio può essere quindi fatto o non fatto a scuola secondo la programmazione educativa e didattica predisposta dal corpo docente, senza timori reverenziali per religioni altrui, poco conosciute, forse come da noi il cristianesimo, apparentemente sulla via dell’oblio, al contrario dell’islam in crescita.

A proposito, visto che se ne parla poco o nulla a fronte delle preghiere della maestra sarda, mi vien da pensare a quel preside di scuola secondaria che, secondo le cronache, ha destinato alcune aule alle preghiere degli studenti musulmani per il mese del Ramadan. Se le cose stanno così e la notizia è vera, si tratta di atti di culto, a scuola. Chi conosce l’islam, sa che le preghiere islamiche sono effettuate in spazi che separano i maschi dalle femmine: anche di questo si terrà conto in quelle scuole? Un particolare d’importanza sulla parità di genere che nella scuola non dovrebbe certamente subire un “vulnus”, per giunta da una pratica religiosa, in quanto tale per giunta non ammessa.
I rapporti con l’islam non sono regolati dalla revisione del concordato, poiché le molteplicità delle forme confessionali dell’islam, fra loro contrapposte, per giunta prive di ufficiali referenti di rappresentanza riconosciuti e giuridicamente riconoscibili, hanno di fatto reso impossibile fino ad ora qualsiasi specifico “concordato”, da operare non si sa con chi e come.
Anche la figura dell’imam, alla cui figura è stata da noi arbitrariamente attribuita una valenza quasi gerarchica, è nella sostanza un fedele che guida la preghiera collettiva. Però anche sugli imam esistono differenze secondo le varie confessioni islamiche. Chissà se, in un ipotetico “concordato”, si terrà conto del fatto che le dottrine religiose menzionate, non giuridicamente riconosciute dal nostro ordinamento, contengono e sostengono principi in contrasto con l’impianto giuridico e costituzionale su cui si basa una repubblica democratica costituzionale, come la nostra.
Complicazioni inimmaginabili si profilano all’orizzonte. Una volta concesso uno spazio di espressione religiosa ad alcuni, come sarà poi possibile fronteggiare le richieste diversificate di tanti altri gruppi confessionali, seppur riferiti ad una stessa generica appartenenza all’islam, teoricamente “unico” anche se diviso da fazioni e confessioni distinte? Chi sa quante aule sarebbero necessarie per le preghiere di tutti, maschi di qua, femmine di là, sempre che sia legittimo riferirsi a due sole ripartizioni degli spazi. L’attenzione alle norme vigenti eviterebbe, come è immaginabile, problemi assurdi.
Poiché la polemica politica si appropria di ogni bega buona per litigare, posso ragionevolmente temere le possibili complicazioni che la concessione del collega preside potrebbe suscitare. Sarà sanzionato come la maestra oppure no? Oppure l’apertura verso l’islam porterà ad esiti diversi e inattesi, poiché le leggi non considerano il caso? Dove non c’è il caso, non c’è il dolo. O no? La legge regola i rapporti con le chiese cristiane. Mica con l’islam. Dove mancano le leggi, si impongono le consuetudini. Anche quelle estemporaneamente favorite. Stiamo attenti.

Vittorio Zedda

9 commenti su “VITTORIO ZEDDA: “La preghiera cattolica è stata sanzionata perché la scuola è luogo di cultura e non di culto. Ma non la preghiera islamica. Eppure la legge dovrebbe essere uguale per tutti”

  1. Grazie Vittorio, condivido la tua posizione. Ritengo fondamentale la distinzione tra momento religioso, bandito dalla riforma del 1984 (se ho capito bene), e momento culturale di cultura religiosa, consentito. A Livorno, la mia città natale, ho frequentato la scuola elementare ebraica parificata, amministrata dalla Comunità Israelitica (il cui regolamento risaliva al Regio Decreto 30 ottobre 1930, n. 1731), ma presso le successive scuole pubbliche che ho frequentato, medie e liceo, ero esonerato dalle ore di Religione. Forse fino ad allora non c’era una distinzione precisa tra i due momenti, a me risultava che in certe scuole pubbliche, specialmente alle elementari, la preghiera in classe era preliminare alla programmazione della mattinata. Nonostante mi fossi avvalso del diritto all’esonero, su richiesta firmata di mio padre, non sono state poche al liceo le ore in cui sono rimasto presente, per curiosità, per interesse culturale. Ed in effetti erano occasioni anch’esse di approfondimento culturale. Per meglio chiarire i termini della questione, per un ebreo è assolutamente vietato assistere ad una funzione religiosa “straniera”, è chiamato “culto straniero”, lasciarsi coinvolgere in pratiche religiose di culto straniero è una grave trasgressione della Torah e della Legge stabilita dai Maestri delle varie epoche, la cosiddetta Torah orale. Questa è la regola in sé, ma è ovvio che essere presenti senza coinvolgimento attivo, non dico che è proprio permesso, ma è già meno grave. Quando poi sono nati i miei 3 figli ero già a Udine e proprio nel 1986, con la riforma Craxi della convenzione tra lo Stato Italiano e l’Unione delle Comunità che in quella circostanza cambiarono nome da Israelitiche e Ebraiche, mio figlio primogenito affrontava la I elementare. Dunque con lui, e dopo con le altre due figlie, in una città priva della Comunità (la nostra di riferimento è a Trieste), abbiamo optato per l’esonero dall’ora di Religione, il cui regolamento era stato nel frattempo modificato. Ma ecco i problemi: non c’era più la semplice uscita dalla classe ma le cosiddette attività alternative. Inizialmente era previsto che queste venissero scelte di comune accordo tra la famiglia e la scuola, ma ci siamo resi conto subito dI un’inaccettabile ipocrisia, infatti non dovevano essere abbastanza attraenti e stimolanti da attirare altri ad optare per esse. In questo modo l’ora alternativa si rivelò per essere un rimedio raffazzonato, quasi vuoto, pura perdita di tempo, un’ora di babysitteraggio. In più la nostra preoccupazione, in famiglia, specialmente alle elementari, era che l’insegnamento della Religione “invadesse” il campo delle altre ore. Inoltre c’era chi a livello di programmi chiedeva che l’ora di Religione si trasformasse in una non ben chiara “ora delle religioni”. Più volte ci trovammo a discutere con maestre, docenti e dirigenti di questi temi. Per noi in famiglia l’ora di Religione era e doveva rimanere “ora di Religione Cattolica”, di cui io mi avvalgo o meno, mentre le altre materie dovevano rimanere in qualche modo immuni da temi religiosi. Anche perché un insegnante preparato sul cattolicesimo non è detto che sia competente in altre religioni. Ripensando oggi, dopo più di 30 anni, a quelle discussioni, capisco una cosa fondamentale e allo stesso tempo semplice e ovvia che tu ora mi hai insegnato, caro Vittorio. La distinzione tra religione e cultura religiosa. In quelle discussioni si scontravano due mentalità che usavano due linguaggi diversi e quindi finivano in circolo vizioso. Ma c’era alla base un equivoco che forse ho còlto solo ora (ma è troppo tardi). Tutto deve essere cultura a scuola, l’ora di Religione Cattolica non è un momento religioso ma di cultura religiosa, e così anche le altre materie, e nell’una e nelle altre si può benissimo far penetrare dall’esterno tutte le culture religiose col contributo delle famiglie, con inviti di persone autorevoli e preparate che le vivono in prima persona. L’avessimo capito allora, saremmo stati in gradi di affrontare il problema in modo forse più costruttivo. Quindi di nuovo grazie Vittorio.

    1. Caro Elio, grazie per il tuo commento, interessante e costruttivo anche per la narrazione della tua personale esperienza. Non è che le norme del 1985 , applicative del concordato del 1984, abbiano “bandito” alcunché. Hanno invece chiarito che la scuola pubblica è laica e pertanto è uno spazio di cultura, anche religiosa, da cui esula il “rito” religioso , che è una pratica confessionale . Ciò innova definitivamente l’impostazione della scuola e dei suoi programmi (oggi curricoli) che non presentano più, come nel passato, la religione cristiana come “base e coronamento” del compito educativo e didattico della scuola pubblica. Antiche abitudini di tipo ritualistico come le preghiere di inizio e di fine lezione e il segno della croce e altre simbologie chiaramente confessionali, senza essere esplicitamente “bandite”, conseguentemente e logicamente non trovano più posto nella scuola in quanto laica. Qualcuno, forse , e dico solo forse, non “si è accorto” del cambiamento e continua con vecchie abitudini, ma questo è capitato anche in riferimento a sanzioni disciplinari agli alunni che con i decreti del 1974 furono diversamente disciplinati ,ma qualche insegnante, come constatai, vent’anni dopo ancora non “si era accorto” del cambiamento. Tornando alla laicità della scuola, va ribadito che la religione come cultura , che caratterizza profondamente ogni civiltà e le sue espressioni, trova assolutamente nella scuola, il posto che merita. Ciò a cui dobbiamo stare attenti è che una scuola laica non diventi un luogo di “integralismo laicista” antireligioso , anche perché la laicità e tutt’altra cosa, anzi è il contrario di ogni “integralismo laicista” , spesso di tipo anti-cattolico o comunque anticristiano, che comunque di fatto mostra non di rado un atteggiamento equivoco verso l’islam , usato come testa d’ariete contro il cristianesimo e non solo. Come sempre “ogni medaglia ha il suo rovescio”. In quanto alle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica per i “non avvalentisi” ,l’idea teoricamente buona e opportuna si è rivelata di difficile realizzazione. I motivi di ciò richiederebbero una lunga trattazione. Certamente la questione va ripensata, anche partendo da ciò che non ha funzionato nell’esperienza fatta. Sono d’accordo con te che l’insegnamento volto alla conoscenza delle religioni in genere richiederebbe una competenza ( e una laicità intesa anche come equidistanza ) specifica ,non so fino a che punto conseguibile. Così ,come ho già detto in altra sede , l’ipotesi di un insegnamento della “storia delle religioni”, presenta problemi di difficile soluzione. Tutto è possibile, ma bisogna vedere come e con quali prospettive di successo. Se ne può riparlare. Sarà meglio che per ora concluda qui il mio discorso. Ti ringrazio nuovamente per il tuo commento e debbo dirti che sono contento di averti conosciuto, anche se per ora, a distanza. Con amicizia e stima. Vittorio Zedda.

  2. Appunto, si impongono le consuetudini. Siccome tutti fanno così allora fallo pure tu, altrimenti poi fai la parte del dissidente e ti guardano male. Di regole “buone” a scuola non se ne seguono più granché. Se poi si tratta di regole o regolamenti nuovi, fatti ad hoc, magari negli ultimi due anni, è proprio il caso di non seguirle alla lettera. Ci guidi il buon senso, anche per valutare l’accettabilità o meno di una regola. E il buon senso lo si alimenta con la conoscenza di tutto quello che sta attorno alle regole.

    1. In ruolo come insegnante dal 1959 al 1977 ( passando per l’epoca della contestazione, del ’68, degli “anni di piombo”,ecc.) seguiti da 23 anni come dirigente, ho imparato ad evitare ogni approssimazione. Per “dissentire” e per un’efficace pratica della “disobbedienza civile” bisogna conoscere e riflettere, molto. E non solo su quello che c’è attorno, ma su quello che c’è dentro e prima di ogni questione. Il buon senso si applica su una conoscenza competente, perché abbia senso ed efficacia. Se no non è “buono” e anche il senso…. Non posso qui raccontare la mia carriera di “disobbediente” , ma sarebbe bello, almeno per me, avere l’opportunità di una conversazione con il collega Ficarra (ho sempre chiamato colleghi tutti quelli che lavoravano con me nella scuola, per la comunanza dei fini per cui collaboravamo, pur in diversificate funzioni) perché vivendo e lavorando s’impara . A 82 anni , si può pensare, con ragione, che quel che si è imparato possa servire anche agli altri . Lo spazio a disposizione per rispondere ha un limite, e debbo per ora concludere. Cordiali saluti al collega Ficarra e grazie per il commento.

  3. Grazie Vittorio per le tue qualificanti considerazioni, ma io ritengo che il ricorrere troppo alla democrazia, alle norme e alla burocrazia nell’ambito scolastico e non solo, siano un segnale di debolezza della nostra società e che minano la nostra stessa origine culturale. Dovremmo essere meno “poltically correct” e più orgogliosi del nostro retaggio culturale che dobbiamo difendere in ogni circostanza senza se e senza ma. La maestra va difesa senza indugio anche perché è importante il segnale che può essere recepito se passa una tesi rispetto all’altra. La domanda che ci dobbiamo porre è cosa riteniamo giusto noi della Casa della Civiltà.

    1. Capisco ovviamente lo “spirito” del commento di Euro Rossi. Mi permetto però di pensare che la democrazia non sia mai troppa e non dobbiamo confondere la burocrazia con le norme. La debolezza di una società sta nel non sapersi dare norme giuste ed efficaci e nell’assenza di mobilitazione sociale per far modificare norme che mostrano effetti controproducenti. Anch’io non sono mai stato “politicamente corretto”, ma la politica è altra cosa, rispetto al Diritto. La difesa della nostra civiltà è cosa sacrosanta , e ci riusciremo meglio usando l’arma della competenza, quindi della conoscenza. La Casa della Civiltà mi pare non voglia percorrere le vie dell’approssimazione e dell’incompetenza, per cui ho fiducia nel percorso che ha intrapreso. Cordiali saluti ad Euro Rossi che ringrazio per il commento.

  4. Le riflessioni di Vittorio sono per me sempre interessanti e competenti soprattutto con riferimento al mondo della scuola dove ha maturato ampia e qualificata esperienza. Mi fa riflettere molto il caso delle preghiere islamiche a scuola nel periodo del Ramadan che rappresentano un malinteso senso di rispetto. Concordo sulla laicità della scuola e anche sulla distinzione tra culto e cultura religiosa; concordo anche sul fatto che il culto vada fatto nei luoghi di culto, tuttavia il caso della maestra che ha fatto recitare la preghiera agli alunni in occasione di una sua supplenza mi sembra che ci porti ad essere eccessivamente burocratici e severi per la nostra religione cattolica e per le nostre tradizioni cristiane. Anche se dopo la revisione del Concordato non si dovrebbero fare atti di culto a scuola ritengo che una preghiera non ha mai fatto male a nessuno, non si tratta di indottrinamento e poi è prassi che in molte classi la mattina la maestra inizi le lezioni con la preghiera richiesta dagli stessi alunni. Inoltre non dovrebbe suscitare scandalo anche la preghiera a scuola soprattutto pochi giorni prima del Natale essendo il nostro un paese prevalentemente cattolico e la cultura cristiana e cattolica permea tutta la nostra cultura in tanti ambiti. Ancora più inaccettabile è la sanzione data alla maestra se si pensa che in tante scuole si infiltrano associazioni che fanno indottrinamento ideologico confondendo l’identità sessuale dei bambini.

    1. Grazie per il commento. Come ho scritto nel mio articolo la sanzione comminata alla maestra mi ha sorpreso, ma non esprimo un giudizio che presuppone la conoscenza del provvedimento con cui è stata irrogata la sanzione : su quali addebiti (accuse, in parole povere), infrazioni alla legge del 1985 ,al testo unico sulle leggi dell’istruzione, ecc. Quel “provvedimento” è un atto legale e per esprimersi in merito occorre conoscerne le basi legali su cui si fonda. Non basta il buon senso , come qualcuno crede, altrimenti non servirebbero gli avvocati, di cui vorremmo fare volentieri a meno. Se poi la legge, ad un esame competente, si presta a critiche, possiamo sempre mobilitarci per eccepire gli eventuali problemi che non risolve. Le leggi non sono immodificabili, ma non si può far finta che non esistano . E i “due pesi e due misure” che potrebbero eccepirsi in rapporto all’altro caso, cioè quello delle aule concesse per le preghiere islamiche, porrebbero sul tavolo questioni non di poco conto. Sul resto del commento , rilevo convergenza di opinioni. Di nuovo grazie e cordiali saluti a Gaetano Strano.

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