Ma sanno i nuovi scopritori di Cristina Campo che ora ricordano i cent’anni della sua nascita, il 28 aprile del 1923, cosa realmente pensava e credeva Vittoria Guerrini (il suo vero nome)? Amava la tradizione, la metafisica, il mito, il simbolo e la liturgia, la messa in latino, Monsignor Lefevbre e la Chiesa russa di rito bizantino; non accettava compromessi sulla fede e sulla fedeltà alla milizia spirituale. In una lettera a Mita scriveva “Questo tempo di orrori e di crolli spirituali è reso sopportabile dalle radici in terra e dalle campane in cielo”. Capite, radici in terra e campane in cielo? Non girate intorno, elogiando la sua prosa perfetta e le sue lucenti poesie, senza cogliere l’essenza spirituale del suo pensare e il suo opporsi alla modernità.
Cristina Campo amava la fiaba e la considerava il primo gradino, sacro e puerile, della metafisica e dell’iniziazione ai misteri del soprannaturale. La fiaba è un racconto mitico e mistico sul miracolo che spezza la necessità grazie al coraggio dell’impossibile, superiore a ogni altra forza. Il cammino della fiaba comincia senza speranza terrena, ma poi la follia di chi crede possibile ciò che è impossibile supera ogni disperazione con fiducia trascendentale. L’illuminazione arriverà quando il tempo sarà maturo, non si può programmare e decidere, viene dall’alto.
Nella fiaba s’incontrano le fate che già nel nome evocano il fato, la potenza del destino. La fiaba fu indicata anche da Simone Weil, che ispirò profondamente Cristina Campo, come la via che riporta l’anima a Dio, attraverso l’attenzione al soprannaturale e la percezione dell’invisibile. Ma a differenza di Simone, che considera l’esperienza spirituale come un disincarnarsi dal mondo, dal corpo e dalla vita, Cristina-Vittoria è cristiana e l’invisibile passa dalla concretezza dell’esperienza corporale e sensoriale; la sua è spiritualità incarnata che coinvolge i sensi come porta d’accesso al soprannaturale. “Afferrare un’idea come si afferra un pezzo di pane”.
La stessa cosa accade nella storia: Cristina considera la lingua il luogo d’incontro tra il tempo e l’eterno; nella fiaba affiora “un ordine spontaneamente liturgico di parole”. E proprio il nostro tempo, che prima definiva di “orrori e crolli spirituali” diventa per Cristina anche un privilegio, un’occasione e una sfida: “Eppure amo il mio tempo in cui tutto vien meno e forse è proprio per questo il vero tempo della fiaba”. L’uomo ha distrutto tappeti volanti e specchi magici quando ha preteso di fabbricarli, dice; ma questa è “l’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire”. Fedele all’impossibile, Cristina pensa che il tempo d’oggi che “ha un fiuto infallibile nel tentar di schiacciare ciò che è inimitabile, inesplicabile, irripetibile, tutto ciò che non gli può somigliare”, possa diventare il tempo assoluto della fiaba e del risveglio spirituale.
E’ uscito in questi giorni un libro a più mani su “Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile” a cura di Chiara Zamboni (ed.Mimesis). Saggi molto diseguali ma che incoraggiano un itinerario campiano nella pur scarna opera di lei e nei suoi preziosi carteggi.
Si potrebbe cogliere l’impronta di Cristina Campo in alcune sue espressioni chiave. Per esempio la sprezzatura: “una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza – la definisce nelle pagine di Con lievi mani – un’accettazione impassibile di situazioni immodificabili”, “un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte”; un’apertura alla bellezza e un superamento dell’io.
O il “soprammercato”, quella grazia sovrabbondante che si riversa sull’anima, e che caratterizza l’eroe della fiaba, che supera il regno della necessità ed entra, tramite la grazia e la gratuità, nel regno della giustizia. L’importanza di riscoprire la grazia “soprammercato” nell’epoca del mercato globale diventato misura di tutte le cose.
O una sua espressione tratta dal linguaggio marinaro: “avanzare di ritorno”. Quando ci si perde in mare, per ritrovare la rotta, si deve procedere in senso opposto rispetto alla direzione fino allora seguita, avanzando di ritorno.
Dalla tradizione orientale e segnatamente iraniana, Cristina Campo trae il riferimento al tappeto islamico dell’orazione. Il tappeto è un linguaggio, ma anche un hortus conclusus, un microcosmo compiuto e uno spazio sacro di preghiera come un giardino; la sua orditura è simile a un poema sacro. Chi annoda i fili del tappeto segue un’ispirazione devota ma anche un destino. Più si conosce la poesia, dice, più si accorge che essa è figlia della liturgia, la quale è il suo archetipo, come Dante dimostra.
La sua breve e delicata esistenza è percorsa come un filo d’amore “da un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto”. Il suo può definirsi davvero pensiero poetante, e l’uno potenzia l’altro, fino a sfiorare la perfezione, unita alla rarità dei suoi scritti, oltre che della sua scrittura. Cercare la bellezza, con umor lieto: anche il cammino della salvezza procede col passo leggero delle fiabe. E, strano a dirsi, questo è per Cristina il tempo propizio per la fiaba.
(Panorama n.18)
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