Ogni giorno c’è qualcuno negli Stati Uniti che si alza dal letto con l’idea di ammazzare qualcuno. Non per fame, non per gelosia, non perché ha subito un torto, non perché è un nemico ma perché sente questo impulso feroce e gratuito per affermare se stesso contro il mondo; o per distruggere se stesso insieme al mondo. Nello scorcio d’anno che abbiamo vissuto, ci sono state ben ventidue stragi con 115 vittime, e altre sono in corso mentre leggete. Alle stragi si aggiungono naturalmente i crimini one to one, gli assassini singoli, ma non fanno più notizia. Lo scorso anno era stato toccato il record delle sparatorie di massa con 36 stragi con armi da fuoco e 186 morti complessivi. Ma a meno di metà dell’anno in corso siamo già quasi a due terzi dell’anno scorso, con la probabilità di superare quel record.
Questo tipo di violenza stragista è tipica degli Stati Uniti, anche se a volte, come per esempio in Serbia di recente, accadono stragi di uguale portata in altri luoghi del mondo. Cos’è raccapricciante in queste stragi? L’assenza di un movente, di un bisogno, di un impulso d’ira per un litigio o per cause precise. Tutto qui è premeditato, pianificato, e insieme è insensato, privo di reale motivazione e di un concreto, specifico rancore nei confronti delle vittime, elette a campioni del mondo che odiano.
In molti paesi del mondo la violenza impazza. Per ragioni di fame e di rapina, di dominio territoriale, a volte per fanatismo religioso, tribale o ideologico; o per facile irascibilità. Da noi, per esempio, i crimini più diffusi nascono dalla patologia del possesso: i cosiddetti femminicidi, per esempio, hanno quella matrice, sono il segno di una dipendenza malata da coloro che saranno poi vittime di massacro. Negli Stati Uniti no, sono una delle cause minori, rispetto alle stragi insensate, ai crimini immotivati contro l’umanità. Qual è la risposta che di solito viene suggerita a questa escalation che ogni anno supera i livelli precedenti? Proibiamo le armi, vietiamone l’acquisto e l’uso, in un paese dove è facile, atavica e diffusa la detenzione di armi. Tanto è semplicistica, sbrigativa, la soluzione quanto è irreale e impraticabile, perché la gente considera le armi come una dotazione necessaria per difendere la propria vita, la libertà, la sicurezza, la proprietà. E perché le lobby delle armi sono forti e ben ramificate nei poteri e nelle assemblee legislative.
Manca però un’analisi più ampia, culturale e sociale, antropologica e sociologica del fenomeno. Torno alla domanda da cui sono partito: perché succede così spesso, e perché proprio negli Usa? Per cominciare, le stragi non vengono dal passato, non sono un arcaico e nefasto retaggio old America, del vecchio far west. Crescono col crescere della solitudine e del mondo virtuale, crescono con le patologie del narcisismo e dell’egocentrismo. Le pulsioni che inducono alla strage possono così ridursi a quattro fattori, spesso intrecciati. Per cominciare la predisposizione sociale alla guerra e alla violenza come soluzione di ogni difficoltà, di ogni conflitto. La prova di forza, che se vogliamo è l’indole tipica di un Paese che si sente sceriffo del pianeta, arbitro e gendarme del mondo: una concezione che, in un paese di matrice individualista, viene inevitabilmente tradotto nella dimensione quotidiana, privata, interpersonale. In secondo luogo, la composizione multietnica della società americana, l’assenza di un mondo comune, di tradizioni e culture di provenienza, produce una società di atomi diffidenti, con linguaggi incomunicanti, in conflitto permanente, che vivono la società come estraneità se non ostilità. E qui s’innesca la terza ragione, che è forse la ragione principale: la solitudine, lo sradicamento, l’inattitudine a incontrare la realtà, a coltivare i rapporti sociali, a vivere immessi in una comunità. Questo viene caricato alla massima potenza da una società in cui l’artificiale e il virtuale prendono sempre più il posto del naturale e del reale; in cui cioè si perdono i confini tra il vero e il falso, la fiction e l’autenticità, il mondo reale e l’universo ludico e fittizio del web. Uccidere qualcuno è un po’ come abbattere le sagome e i profili su uno schermo, come si fa in qualunque gioco di simulazione. Questo fa perdere realmente i confini del reale, del vero, dell’umanità.
La soluzione di abolire le armi si abbina solitamente a un discorso ideologico che prende lo spunto da alcuni invasati di ideologie radicali e di odi etnici per sostenere che quello sia il movente principale delle stragi. Ma quelle ideologie, quegli slogan, quelle immagini, fungono solo da icone, da cornici simboliche per dare un nome e un segno alla violenza. La “libido criminis” si serve di quel racconto, ma non scaturisce da quell’ideologia; quello è solo il supporto e l’alibi per dare un “concept” al proprio crimine. Sappiamo viceversa che molte stragi nascono da ragioni “ideologiche” opposte, o da migranti risentiti che odiano la società in cui si sentono estranei e usano motivi religiosi, odii di classe e rivalse etniche per giustificare la loro violenza. Anche in questo caso la colpa non è delle loro idee o dell’etnia ma della pulsione distruttiva che si serve di quegli alibi. Ora si può anche proibire o limitare fortemente l’abuso di armi, magari è utile, ma non è sufficiente. Il problema è più radicale e purtroppo di più difficile soluzione. Il male non è l’arma in casa ma il tarlo in testa di chi la usa.
(Panorama n.21)