Ora che emergono chiaramente le gravi responsabilità della mancata manutenzione del ponte di Genova, denunciate dall’amministratore del tempo, Gianni Mion (“Sapevamo che il ponte poteva crollare”) riproponiamo un articolo che pubblicai all’indomani della tragedia.
I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’attuale sinistra italiana. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i loro messaggi pseudoumanitari contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno sempre cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto, al messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli. Via le barriere nel mondo, ma non ai caselli, dove si tratta di prendere soldi. Di recente la Benetton ha fatto anche ciniche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Che nesso vi sia tra vendere maglioni, far pagare pedaggi e predicare questa pappa del cuore non è chiaro.
Dietro la facciata di Benetton c’è però poi la realtà di Maletton, il lato B dell’azienda. E’ il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali, come le comunità mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, pur dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a prezzi stracciati presso aziende che sfruttavano i lavoratori a salari da fame e in condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva tra l’altro per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi e miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia. Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e sfruttatore: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico. A volte socializza le perdite e privatizza i profitta, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi materiali scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti con l’Olivetti. Oppure si prende la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, ma non si cura di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. Come ha tragicamente dimostrato il crollo di Genova. Di tutto questo, naturalmente si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo, del resto, che Benetton ha quote azionarie nel gruppo de la Repubblica-L’Espesso-La Stampa, dove si sono trovati – guarda un po’ – come affiliati, compari o soci azionisti i sullodati Agnelli e De Benedetti. Insomma il capitalismo italiano alla Benetton, da un verso sostiene battaglie “progressiste” e appoggia forze politiche pendenti a sinistra, finanzia battaglie global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie di colonizzazione, espropriazione di terre alle popolazioni indigene, sfruttamento di risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza e ottenere il massimo profitto.
Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: perché un ceto ideologico progressista, radical, di sinistra fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni, a carico nostro. Ed è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In quest’intreccio ci sono i potentati italiani e contro quest’intreccio è sorto il fenomeno populista.
Però alle volte insorge pure la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno gradi di responsabilità anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti, perché avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Se per esempio avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era certamente e notoriamente il ponte di Morandi a Genova, oggi non staremmo a piangere i morti e una città spaccata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita piaga del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno deve pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa. Rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita e va in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, o perché furono fatte con materiali inadeguati, o perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione(…)
Intanto è necessario rimettere in discussione con lo statalismo incapace e impotente, anche il capitalismo parassitario, sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche. Quelle aziende che sognavano di abbattere le frontiere e nel frattempo lasciavano crollare i ponti…
(Il Tempo, 17 agosto 2018)