MARCELLO VENEZIANI: “Pareto scoprì le élite, i miti moderni e il fascismo”

Come oggi cent’anni fa, il 19 agosto del ’23, moriva nella solitudine di Céligny, il più grande sociologo italiano, scopritore delle élite e del mito nella società contemporanea: Vilfredo Pareto. Economista e matematico, storico e sociologo, studiò con realismo lucido e a tratti ironico, le mutazioni e le invarianti della storia; osservò la realtà e l’umanità con estraneo disincanto, come se lui non vi appartenesse. Critico del socialismo ma severo anche verso la borghesia, liberale diffidente della stessa libertà, fautore del principio di autorità e dell’ascesa fascista al potere, scienziato che pone limiti alla scienza, aristocratico che reputa caduche le aristocrazie, fustigatore dei falsi pudori come dei costumi permissivi, realista ed empirista ma portò alla luce il fondo mitico e sacrale delle azioni umane. Pareto comprese la grande incidenza dei fattori “non logici”, della forza, la circolazione delle élite, anche in democrazia e nel socialismo, nel razionalismo e nel pacifismo.
Pareto nacque a Parigi nel mitico 1848 ma visse tra Firenze e la Svizzera. Era stato radicale in gioventù, liberale da adulto, reazionario da vecchio, scettico e aristocratico sempre. Teneva al suo titolo di marchese anche se lo spregiava come ninnolo, sciocchezza; sfidò a duello il conte Alessandri che aveva dubitato e ironizzato sul suo titolo nobiliare. Si laureò in ingegneria; si occupò d’economia e di ferrovie, insegnò a Losanna. Lasciato da sua moglie, la principessa russa Alexandra Bakunin, si unì more uxorio con Jeanne Regis, conosciuta con un’inserzione sui giornali. Non ebbe figli, detestava i bambini. Col nuovo secolo si ritirò nell’eremo di Villa Angora, a Céligny, sul lago di Ginevra, circondato da due dozzine di gatti, qualche scoiattolo e un capretto. Pareto riceveva i rari ospiti coperto da vari strati di mantelli. Apriva una bottiglia di vino secondo il gusto dell’invitato; pur essendo un raffinato cultore di Bacco, Pareto non beveva. Elitista ma non etilista, scrivevo curando da ragazzo una sua antologia; lasciava che a inebriarsi fossero gli ospiti. Così fece anche nella vita, lasciò che si ubriacassero le élite e i popoli; lui, astemio, descrisse lucidamente gli effetti dionisiaci sui singoli e sui popoli, ben sapendo che l’ebbrezza spinge gli uomini a compiere grandi imprese.
Pareto, Mosca e Michels sono noti come “machiavellici”: sono realisti, ritengono invariabile la natura umana, guidata della necessità, della virtù e della fortuna; a dominare è la forza del leone o l’astuzia della volpe. Non può esistere un governo del popolo; la sovranità è sempre nelle mani di pochi, la storia è un cimitero di aristocrazie e la lotta politica è una competizione tra élite in ascesa e in declino. Tra gli autori citati, Pareto ha lo sguardo più ampio e più lungo, da economista e da sociologo, da osservatore della storia, della politica e dei caratteri. Pareto fu il primo a introdurre il concetto di élite, che trascende quello di classe politica, a cui si riferì invece Mosca. L’élite per Pareto è come un fiore, appassisce; ma se la pianta, ossia la società, è sana, nascerà presto un altro fiore. La circolazione delle élite avviene in due sensi: uno orizzontale (all’interno della stessa élite) e uno verticale (ascesa o caduta dell’élite).
Pareto colse nella storia due elementi decisivi: i residui e le derivazioni. I primi sono fattori non logici, le seconde sono invece la loro rielaborazione logica. Tra i residui spiccano due impulsi opposti: l’istinto delle combinazioni che produce dinamismo e innovazione e la persistenza degli aggregati che induce a difendere gli assetti precedenti. Ambedue le spinte sono necessarie in ogni società per garantire equilibrio tra continuità e novità, tradizione e progresso. Ci sono anche i residui sessuali sui quali sorge “il mito virtuista” col suo puritanesimo sessuofobo che Pareto sferzò con sagacia.
Nella sua opera capitale, il Trattato di sociologia, previde scenari che si avverarono: in Russia, in Italia e nel resto d’Europa. Polemizzò con Maffeo Pantaleoni sugli esiti del conflitto mondiale: Pareto sosteneva che la guerra avrebbe favorito le rivoluzioni socialiste, Pantaleoni che avrebbe rilanciato lo spirito patriottico. Ebbero ragioni entrambi perché sorsero sia il bolscevismo che il fascismo, dopo il biennio rosso.
La sua lezione sull’impossibile autodirezione delle masse ebbe allievi diversi, da Lenin a Mussolini, ma anche i nazionalisti, Gramsci e Gobetti. Si racconta che Lenin e Mussolini si siano sfiorati solo una volta nella vita, a Losanna, seguendo le lezioni di Pareto. Partendo da un giovanile socialismo e poi un disilluso liberismo, Pareto notò che le ideologie erano gusci vuoti senza due ingredienti essenziali: la forza e il mito. Qui le idee di Pareto collimavano con quelle di un altro ingegnere pensatore che aveva destato anch’egli l’interesse di Mussolini e di Lenin, ma anche di Gramsci, Gobetti e dei sindacalisti nazionali e rivoluzionari: Georges Sorel. Il mito di Sorel è lo sciopero generale, il mito di Pareto è la nazione. Pareto fu definito da Volt “il Karl Marx del fascismo”. Scrisse sulla rivista mussoliniana Gerarchia. Aveva conosciuto Mussolini ai primi del novecento, quando l’agitatore socialista era rifugiato in Svizzera. Nell’ottobre del 1922 Pareto incoraggiò Mussolini a marciare su Roma e prendere il potere, con un telegramma in cui gli diceva: “ora o mai più”. Appena salito al governo, Mussolini lo nominò rappresentante dell’Italia presso la Società delle nazioni. Il 1º marzo del 1923, su proposta del governo fascista, fu nominato Senatore del Regno, ma la nomina non si concretizzò perché Pareto non consegnò mai i documenti richiesti. Pochi mesi dopo morì.
Altri ci racconteranno la psicologia delle folle (Le Bon) e la ribellione delle masse (Ortega y Gasset); Pareto ci insegnò la circolazione delle élite e il ritorno possente dei miti in piena modernità.

La Verità – 18 agosto 2023

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