Annunciato da più di un secolo, il tramonto dell’Occidente sta diventando ora realtà e il G20 dei giorni scorsi lo ha confermato. L’Occidente ha perso l’egemonia mondiale, è minoritario rispetto al resto del mondo, deve fare i conti con potenze più grandi e con vaste alleanze tra gli orienti e gran parte del sud del pianeta, l’Africa e il sud occidentale, quello latino-americano.
Voltiamoci a guardare questo primo scorcio di millennio. Quanto è lontano l’11 settembre del 2001, con l’attacco alle torri gemelle, che quest’anno è stato ricordato meno che il golpe in Cile, nello stesso giorno del 1973. Dell’11 settembre ne abbiamo parlato per anni come la svolta epocale decisiva, ritenendo che la partita del futuro fosse tra Occidente e Islam. Oggi invece altri soggetti si profilano nel mondo. Da una parte c’è il club denominato BRICS, formato da Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica a cui si sono aggiunti e si stanno aggiungendo un’altra quarantina di paesi che un tempo si sarebbero detti non allineati. E dall’altra c’è la potenza americana, anzi euro-atlantica, o se vogliamo il g7 che comprende oltre i paesi occidentali eminenti anche il Giappone. L’allargamento del Brics a tanti altri paesi, tra loro molto diseguali in tutto, comporterà non pochi problemi di convivenza; più si allargano i club più difficili sono le sintesi e le mediazioni. Il loro collante è tuttavia proprio il rifiuto dell’egemonia occidentale e americana nel mondo. E sono gran parte della popolazione e dei territori del pianeta. E’ difficile che gli Stati Uniti possano ancora aspirare al ruolo di gendarmi del mondo e arbitri supremi del pianeta e che il dollaro possa essere ancora la moneta planetaria di scambio; sarà già tanto se resterà l’inglese la lingua internazionale. Un mondo sta cambiando, la storia sta mutando verso e non è più possibile ostinarsi a fare i giudici supremi del pianeta e vedere la fine della storia nelle braccia della globalizzazione di marca Usa. La questione mondiale va ben oltre la guerra in Ucraina e il tentativo non riuscito di isolare la Russia nel contesto internazionale; investe gli assetti geopolitici mondiali.
In questo contesto lo stesso Islam, pur rappresentando popolazioni e stati in espansione demografica e religiosa, costituisce oggi un polo aggregato più che aggregante o egemone; e per giunta non omogeneo, diviso tra Iran, Turchia e Arabia Saudita, e tra sciiti e sunniti. La Turchia è con la Nato, l’Iran entra nei Brics con gli arabi. Giganteschi interessi, non solo petroliferi, si agglomerano in questa alleanza. Allo stato attuale le potenze eminenti nel mondo extra-occidentale sono la Cina e l’India, e quindi la Russia; solo dopo si può considerare il ruolo della Turchia, dell’Iran e degli altri paesi islamici, peraltro disuniti.
In questo quadro, il ruolo dell’India e la figura del suo leader Modi hanno assunto un ruolo centrale, da ago della bilancia tra Stati Uniti e Cina, ma anche tra Occidente e Russia. L’India è la più popolosa democrazia al mondo ed è il paese considerato meno minaccioso, meno ostile sullo scenario mondiale, a differenza degli altri citati. Non ha propositi aggressivi, non ha mire coloniali, vive una crescita lenta e inesorabile, nonostante non sia privo di contrasti e problemi interni, anche per la vertiginosa espansione della sua popolazione. Nel recente vertice del G20 Modi è apparso realmente il punto di equilibrio e di mediazione mondiale, tra il nord del Pianeta e il sud, con l’Africa, tra gli Usa e la Cina, tra l’Oriente e l’Occidente. Anche se l’India (col nome antico e sacro di Bharat, come vuole Modi) è l’Oriente per antonomasia; ma se è per questo anche Brasile e Argentina, pur essendo nell’emisfero occidentale, sono più vicine alle potenze dell’est che agli Stati Uniti.
L’incertezza regna sovrana, ma il mondo policentrico che si prospetta è l’unico praticabile, in grado di contenere i conflitti, le rivendicazioni e le supremazie. Dunque bisognerà ridisegnare gli assetti, rivedere le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e le altre entità sovranazionali che vegliano sul mondo. Tutto questo porterà a un ridimensionamento dell’Occidente e dei suoi membri, non solo gli Usa. E dei suoi codici ideologici, giuridici, economici, vitali.
Noi occidentali eravamo convinti di trainare il mondo sulla via della modernità e della globalizzazione, e di conformarlo al modello occidentale. Invece dobbiamo fare i conti con la nostra perduta centralità e con altre egemonie vie di sviluppo. A tal proposito cito l’uscita imminente di due libri pertinenti: I nodi dell’occidente di autori vari, ed. Belforte, a cura di Massimo de Angelis (c’è anche un mio contributo finale, Oltre l’Occidente) e La deriva dell’Occidente, ed.Laterza, di Franco Cardini.
Al declino occidentale concorrono due fattori interni decisivi: il declino del cristianesimo e il declino demografico. Da una parte un Occidente demotivato, nichilista, senza valori di riferimento, privato di identità e di orgoglio della propria storia; e dall’altra un Occidente sempre più senile, devitalizzato, abitato da migranti, depresso.
Davanti alla crescita di altri mondi rispetto al nostro, non possiamo listarci a lutto e barricarci in casa; ma non possiamo nemmeno esultare se altri mondi vitali prenderanno il posto del nostro. Idealmente possiamo confortarci a vedere che non tutto il mondo è in declino; ma non può esaltarci pensare che noi apparteniamo all’emisfero calante. Il rimedio non è rassegnarsi e farsi trainare da altre locomotive; né fingere che nulla stia accadendo e continuare a simulare di essere i padroni del mondo. Ma risvegliarsi, andare oltre l’esausta categoria di Occidente, riscoprire la propria identità nazionale, europea e mediterranea e non aver timore di essere troppo radicali sia nel conservare che nell’innovare, nel tornare alle origini e nel riprendere la sfida della storia che verrà. L’alternativa è la notte.
La Verità – 14 settembre 2023
Preciso e puntuale l’analisi di Marcello Veneziani, come sempre. Condivido la sua proposta, perché è anche la nostra, pur con qualche esecutiva differenza.