DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “L’esecrabile deformità delle virtù di don Gonzalo nella Cognizione del dolore di Gadda”

Nel paesino di Lukones girano strane voci su don Gonzalo. Si dice che egli sia una persona strana e decisamente fuori dal comune. Chi lo ha incontrato sostiene che don Gonzalo abbia un aspetto per niente socievole e che sia un uomo poco incline a relazionarsi in maniera aperta e positiva nei confronti degli altri.
Dallo sguardo, si racconta, don Gonzalo pare non avere alcuna compassione verso la miseria della povera gente. L’atteggiamento dell’uomo appare particolarmente aspro nei confronti delle persone più umili.

José, il “peóne”, ossia il contadino che per motivi di lavoro si è diverse volte recato presso la villa di don Gonzalo, ritiene che questi sia un uomo che ha dentro di sé, nel suo ventre, tutti «i sette peccati capitali, […] come sette serpenti», che lo divorano «dalla mattina alla sera e perfin di notte».

È opinione diffusa che don Gonzalo dorma fino alle otto di mattina e che si faccia portare il caffè a letto dalla signora, sua madre, «povera vecchia!», e che sua abitudine sia quella di leggere i giornali, anch’essi a letto, rimanendo sdraiato. Egli sarebbe solito tenere anche qualche libro sopra il comodino e leggerlo “di tanto in tanto”, «mentre i contadini son già dietro da tre ore a sudare […]».

Il protagonista del romanzo La cognizione del dolore, ossia l’“eroe”, fa la sua comparsa sulla scena indirettamente, come fulcro delle malevole chiacchiere che in paese vengono fatte sul suo conto. Su di lui si sono sparse voci financo «tristi […] o addirittura disgustose». Si è cominciato a dire che don Gonzalo sia “iracondo” e che durante i suoi «accessi bestiali di rabbia» egli tenda a maltrattare la povera madre anziana.

Le fantasie deformanti sul protagonista giungono a presentarlo addirittura come un uomo dalla fame vorace e dall’insaziabile avidità di cibo e di vino. Si racconta che una volta abbia persino rischiato la vita a seguito di un’indigestione per aver ingerito un riccio o un granchio o una specie di scorpione marino di colore scarlatto. C’è anzi chi narra addirittura che ciò che don Gonzalo aveva mangiato fosse, invece, un pesce-spada e che egli lo avesse deglutito intero «bollitolo appena quanto quanto, ma altri dicevano [addirittura] crudo, dalla parte della testa, ossia della spada».

Le persone colte si rifiutano di prestar fede a simili “barocche fandonie”. Le dicerie messe in circolo sul personaggio di don Gonzalo sono il risultato della percezione distorta che il volgo ha di chi, per restar fedele ai valori alti dell’intelligenza, della cultura, della dignità e del rispetto civile, preferisce vivere in uno sdegnoso isolamento per mantenere le distanze da una massa di gente volgare e stolta.

L’atteggiamento virtuoso del protagonista viene così interpretato antiteticamente rispetto al suo vero significato e ritenuto sospettoso ed esecrabile da parte degli altri, i quali percepiscono la superiorità morale e spirituale dell’uomo come pericoloso segno di diversità.

Quello che si realizza nei confronti di don Gonzalo è ciò che in termini psicanalitici si definisce un meccanismo di proiezione. L’atteggiamento difensivo tramite il quale la società ritiene condannabile colui il quale viene percepito come strano e perciò “negativo”, nasce dal bisogno di mantenere l’equilibrio identitario che sottostà alle norme e alle abitudini comuni della gente volgare, di cui la società è perlopiù composta. Don Gonzalo rappresenta perciò una riprovevole minoranza.

Dopo aver concluso la carrellata di deformanti caratterizzazioni popolari con la quale si è aperto il racconto, il narratore finalmente fornisce la presentazione della vera fisionomia del personaggio di don Gonzalo.

Lo sguardo sul protagonista viene dato attraverso un inquadramento che lo ritrae all’interno della sua villa. Lì don Gonzalo viene descritto intento a leggere la Fondazione della metafisica dei costumi di Kant. La villa di don Gonzalo è circondata da elementi ambientali e paesaggistici umili, che rimandano, simbolicamente, a quella povertà di prospettive mentali e a quella pochezza intellettuale proprie della borghesia lombarda, che lo stesso Gadda ripugna.

Gli alberi di pero e la frutta presenti nella campagna circostante rappresentano per don Gonzalo, e quindi per Gadda, l’elemento emblematico che denota la limitatezza dei panorami mentali della classe sociale della borghesia del nord dell’Italia negli anni Trenta dello scorso secolo.

L’accostamento brusco, quasi grottesco, tra la bassezza del volgo e l’altezza forse eccessiva dei propositi e degli interessi filosofici del protagonista crea un effetto comico che si intona bene con il parossismo caricaturale delle deformanti descrizioni e dei racconti del popolo. L’ottica attraverso la quale si crea l’effetto comico è quella di una lettura antifrastica del modello incarnato nell’atteggiamento di don Gonzalo.

Forti sono i richiami autobiografici di cui è ricca la personalità del protagonista del romanzo e molteplici sono i rimandi alle istanze soggettive dell’autore dell’opera di cui la narrazione è intrisa. Gadda proietta nella vicenda e nella figura di don Gonzalo tutte le sue personali ossessioni e tutti i motivi di insofferenza individuale che alimentano il suo dolore esistenziale.

Di lui si sottolinea l’origine germanica, evidente nelle sue manie di ordine e nel suo amore per il silenzio. Il narratore mette poi in rilievo l’odio di don Gonzalo nei confronti della sciatteria di chi lascia immondizie sui prati dopo i picnic. Tale segno di inciviltà è manifesto di quel caos esistenziale che anche Gadda percepisce concretamente nella realtà.

La mancanza di un dovuto rigore comportamentale da parte della gente e la sua superficialità egoistica sono la causa di quest’incuria e del mancato rispetto delle regole da parte di molti. Di contro don Gonzalo sente, dentro di sé, «un certo rovello […] a voler risalire il deflusso delle significazioni e delle cause», in un dichiarato disdegno nei confronti delle apparenze superficiali.

Don Gonzalo, incarnazione perfetta della personalità di Gadda, rifugge cioè dalle conclusioni affrettate e propende per una «certa lentezza e opacità del giudizio», cioè per l’elaborazione soppesata del proprio parere, che deve essere formulato solo a seguito di un’appropriazione conoscitiva meticolosa della realtà, necessaria in quanto propedeutica all’azione.

Carattere “germanico” ha anche certa sua pedanteria, cioè quel suo atteggiamento di grande, a volte eccessiva, meticolosità scrupolosa con la quale egli si appresta a svolgere le azioni quotidiane, finanche quelle più semplici e comuni.

All’opposto dell’approssimazione e della noncuranza che caratterizzano le abitudini della gente, don Gonzalo-Gadda si approccia ai gesti della vita con una precisione estrema che lo differenzia dalla massa. Don Gonzalo non ha «nessun genio per l’arrabattarsi e il tirare a campare».

Egli, inoltre, si sente infastidito dal baccano rumoroso e “clamoroso” della radio e la sua ambizione sarebbe piuttosto quella di impiegare il proprio tempo a svolgere attività nobili, come, per esempio, quella di studiare e scrivere postille critiche sul Timeo di Platone.

Spendersi in azioni di piccola e vuota entità, finalizzate solo a ottenerne un tornaconto in termini di un risarcimento pratico, è ritenuto da Gadda una perdita di tempo, che lo tiene lontano dal suo vero desiderio di ritirarsi in privato e di coltivare la meditazione filosofica.

Limitarsi a campare svolgendo una vita in contatto costante con un mondo dalla volgarità dilagante, rappresenta il vero male che tormenta il protagonista dell’opera, sotto le cui spoglie si cela la figura dello stesso scrittore.

Il dolore profondo dell’anima di Gadda nasce proprio dall’incontro tra queste due dimensioni sproporzionate: quella dell’altezza spirituale superiore dell’individuo dotato culturalmente e, in tal senso, privilegiato, e la noncuranza che caratterizza il costume corrente.

Gadda è uno scrittore che non si rassegna al disfacimento dei valori a cui personalmente assiste all’interno del mondo occidentale dello scorso secolo. Egli incarna in sé il modello di un individualismo costruito sui meriti personali che rappresenta l’unica alternativa possibile a una collettività dal comportamento degradato a cui non si accetta di asservire.

Il “male invisibile” che logora l’anima dell’intellettuale è il risultato della percezione di questo contrasto esistenziale irrisolvibile tra l’io e il mondo. Non sembra esserci un riscatto pacifico possibile da proporre a questo contrasto. Il rischio è quello di dover accettarlo, questo contrasto, per la vita e di condurre un’esistenza in cui la nevrosi e la malattia siano il prezzo da pagare, nell’attesa di morire e poi di rinascere definitivamente.

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