Come sempre i nuovi strumenti che l’ingegno riesce a creare cambiano la vita degli umani. Il cambiamento è buono o cattivo secondo l’uso che si fa dei nuovi strumenti. La loro potenzialità viene commisurata all’inizio dall’aiuto e dalla velocità con cui ogni nuovo strumento consente di operare. La riduzione dei tempi e l’aumento della qualità, della precisione e della produttività di un processo lavorativo che prima richiedeva tanto impegno, spese, tempo e fatica emergono di prim’acchito come chiari indicatori di successo del nuovo strumento.
Ma uno strumento nuovo non serve solo a fare più agevolmente “cose vecchie”. Penso al mondo della scuola, sempre presente nel mio vissuto, e mi viene in mente W. Kenneth Richmond. Nel suo libro “La rivoluzione nell’insegnamento” (sottotitolo chiarificatore “Dall’impulso tecnologico a una nuova pedagogia”), alludendo al ricorrente fenomeno della comparsa in campo didattico di nuove strumentazioni tecnologiche di cui non si capisce l’effettiva portata innovativa, usa un’efficace metafora: «la sindrome della carrozza senza cavalli».
Nelle prime automobili la gente vide solo delle carrozze senza cavalli, e così ribattezzò lo “strumento nuovo” con il nome di uno “strumento vecchio”, evidenziando ciò di cui era privo piuttosto che quello che di nuovo aveva.
A ben vedere la “sindrome della carrozza” toccò anche alla denominazione di quello che chiamiamo computer (cioè calcolatore): un complesso congegno che non è solo un calcolatore bensì un elaboratore elettronico multimediale e multifunzionale con infinite modalità d’impiego. Curiosamente dei nuovi strumenti tecnologici la gente non saprebbe che farsene fino a quando non li prova. E dopo averli provati si lascia guidare affascinata dagli imprevisti percorsi che il nuovo strumento apre di fronte ai loro occhi, prima ancora di utilizzarli per effettive e concrete esigenze.
In un ciclico alternarsi di tecnologia che coinvolge gli uomini e di uomini che “cavalcano” la tecnologia e continuamente la trasformano. Coloro che acquisiscono le migliori competenze in un qualsiasi campo tecnologico esercitano un potere o poteri diversi che i meno competenti non hanno, e quindi subiscono.
La cosiddetta “Intelligenza artificiale” è la nuova arena di confronto fra coloro che ancora non sanno di che si tratti e coloro che già da tempo e sempre più largamente ne fanno uso. Alla metafora di Richmond ne proporrei quindi in aggiunta un’altra.
Mi trovai mezzo secolo fa a girare in taxi nel traffico caotico di Napoli, dove pareva che i sensi di marcia fossero tutti permessi e i semafori non vietassero niente a nessuno. Alle mie garbate osservazioni sulla “guida creativa” dell’autista, lo stesso altrettanto garbatamente replicò: «Signo’, accà chi prima si sveglia comanda».
Quella risposta mi pare buona anche in materia di Intelligenza artificiale. In un dibattito in videoconferenza sul tema, una professoressa di scuola secondaria espone la sua esperienza in materia e racconta il suo primo casuale “incontro” con l’intelligenza artificiale. Impegnata a sostenere un allievo nel suo percorso verso la maturità, aiuta lo stesso a orientarsi nell’elaborazione di un saggio dal titolo ben definito. Lo guida quindi a individuare ed annotare, anzitutto, una sequenza logica o “scaletta” di argomenti e relativi sviluppi in previsione di una conclusione congruente con il tema e il suo svolgimento. Ma l’allievo ad un certo punto la interrompe e le propone: «Perché non proviamo a elaborare il saggio con l’Intelligenza artificiale? Possiamo usare “Chat.GPT”.»
La professoressa non si lascia spiazzare dalla proposta e risponde: «Proviamo». L’alunno apre la “applicazione” sul pc e inizia impostando i dati che la procedura richiede: argomento, titolo, finalità, fino al numero di righe della lunghezza del testo. Pronti? Via. Una volta attivato “Chat. GPT” sforna il lavoro finito in breve tempo.
La prof. lo legge e lo trova completo, corretto, perfetto nella forma e nei contenuti. Eccellente.
Si chiede però che cosa potrebbe succedere in una classe in cui tutti gli allievi per lo stesso saggio si avvalessero di “Chat.GPT”. Ne sortirebbero 25 svolgimenti identici? Non resta che provare. Viene reimpostato con Chat.GPT lo stesso saggio, con le stesso titolo e le stesse caratteristiche. Risultato: ancora un ottimo svolgimento, coerente con il tema, ma diverso nell’esposizione. Altrettanto tecnicamente valido quanto il primo.
Resta da fare un terzo tentativo per appurare questa varietà espositiva che lo strumento è in grado di fornire con lo stesso ineccepibile risultato sullo stesso tema. L’esito conferma quanto atteso: per la terza volta uno svolgimento diverso ma coerente con l’argomento, le conclusioni, la qualità e i contenuti. Valido come i due precedenti elaborati..
A questo punto gli interrogativi sull’uso dell’Intelligenza artificiale a scuola più che trovare una risposta aprono una serie infinita di interrogativi. L’allievo impara in rapporto all’impegno personale che ha profuso nell’elaborazione meditata dell’argomento, nelle ricerche necessarie attivate per documentarsi, nella correlazione degli argomenti e nelle conclusioni cui giunge e nell’efficacia comunicativa con cui le espone. Viceversa con il saggio elaborato da Chat.GPT, nemmeno è in grado di chiarire la scelta delle argomentazioni e la logica delle conclusioni. Non ha fatto lavorare il cervello. In un caso del genere “la carrozza è senza cavalli”, ma ha somari al seguito e l’ottundimento mentale ne pare la conseguenza..
Orbene questa è grosso modo la cronaca di un primo impatto con l’Intelligenza artificiale a scuola. Ha i limiti ma anche l’utilità di un episodio ben circoscritto e definito. Non vuole essere un giudizio da incompetenti sull’intelligenza artificiale e le migliaia (o milioni) di applicazioni che può avere in un infinito panorama di usi e di impieghi opportuni. È solo un segnale su cui riflettere, non dimenticando ciò che lo stesso Elon Musk affermò e con cognizione di causa, si presume: «L’Intelligenza artificiale è un rischio per l’umanità». Gli interrogativi sono tutti aperti.
Concordo sulle tue conclusioni, carissimo Vittorio. L’intelligenza artificiale è un eccellente strumento di “ottundimento”, come hai giustamente titolato questo articolo.
Per quanto ne so io in tema di funzionamento del cervello, e cioè poco, ho comunque ben compreso che il nostro cervello si evolve ed impara sempre di più perché sviluppa sinapsi per ogni cosa che apprende. Vale quindi anche il contrario: se non apprende si atrofizza.
Ed a questo punto la mia mente (certamente complottista!!!) arriva a dubitare che tutto ciò sia proprio voluto. Chi lo ha pensato e voluto conta sulla falsa confidenza di coloro che sono tutti soddisfatti di utilizzare l’intelligenza artificiale di non perdere alcuna delle loro capacità. Avremo giovani sempre più incapaci di elaborare autonomamente un testo e, leggendo, di comprendere un testo; di fare un semplice calcolo a mente ed incapaci di elaborare un pensiero critico. Tutto questo è sempre più spaventosamente simile al noto romanzo di Orwell dal titolo “1984”- Forse siamo ancora in tempo a cambiare il finale: non stanchiamoci di dire sempre la verità in libertà e forse piano piano otterremo il miracolo di risvegliare le persone.