La giornata del Ricordo coincide quasi sempre col festival di Sanremo, sicché si assiste ogni anno alla penosa trattativa Stato-spettacolo per elemosinare una pillola – piccola, fredda e svogliata – di memoria delle foibe sul palcoscenico canoro.
Orfana spaesata nel calendario delle ricorrenze, la Giornata del Ricordo ha mantenuto lo statuto di festa sottufficiale, coatta e minore, strappata dalla destra nel nome di una triste par condicio del martirio. Ammiro la tenacia di chi la difende, nonostante il suo rango minore e negletto, capisco la difesa di chi dice “meglio poco che nulla”, meglio il lieve mormorio che il silenzio d’omertà. E rispetto ancor più la difesa di quella storia davanti al tentativo di ricondurre anche quella tragedia alla colpa del “nazifascismo”.
Trovo però triste e deprimente questa riduzione della memoria storica a Martirologio, puro ricordo delle Vittime. Mi piacerebbe che la memoria storica, istituzionale e collettiva ricordasse le tappe di fondazione e rifondazione, le nascite e gli avventi, più che gli eccidi, le cadute e le liberazioni.
Dalla fondazione di Roma al Risorgimento e alla Vittoria del 4 novembre, ci sono date che indicano questi momenti significativi, sorgivi e fondativi della storia. Invece da tempo si identifica memoria con orrore, storia con vittime, e questo spiega perché la storia susciti più pena che interesse, più voglia di sbarazzarsene e di dimenticare, che passione di conoscenza, di riconoscenza e di ricordo.
La giornata del Ricordo, pur ricordando una tragedia – le foibe, l’esodo – fu in fondo l’ultima festa istituita dedicata all’amor patrio. Potrebbe avere una rilevanza storica enorme se fosse riferita non solo alle migliaia di vittime e ai 350mila esuli istriani e dalmati, ma se fosse intesa come il capitolo nostrano della più grande tragedia del Novecento: il comunismo, che ha mietuto più vittime in assoluto, nell’arco di più anni, in più paesi e continenti, e non in tempo di guerra. C’è chi ne contò quasi cento milioni. Non c’è in effetti, almeno in occidente, nessuna celebrazione che evochi questa catastrofe dell’umanità durata così a lungo, e questo dovrebbe far pensare all’uso manicheo della storia e al monopolio ideologico e settario della memoria.
Però anche di fronte a questa immane tragedia – unica come unica fu per altri motivi la Shoah – resto dell’idea che non si possa ridurre la storia al culto delle vittime. Se ragioniamo in questo modo, tutta la storia del passato è solo un immenso cimitero, perché sono tutti morti, e dunque ogni rievocazione storica non è altro che una commemorazione di defunti. La differenza col due novembre sarebbe dunque solo una: la memoria storica si occupa solo dei morti ammazzati. Ma alla fine la storia è solo il viaggio doloroso in una necropoli. Per assurdo ma si arriva a questa conclusione implicita: allora è meglio occuparsi dei vivi.
Di solito le giornate dedicate a ricordare nascono quando i ricordi appassiscono. Un po’ come quando un anziano comincia ad annotare sul diario quando deve prendere la pasticca e quando c’è una ricorrenza cara: la memoria sta per andarsene, il ricordo si appanna, e allora nasce la necessità di farsi un nodo al fazzoletto della mente. Più che dall’amore e dalla premura, la necessità di fissare il ricordo nasce dall’arteriosclerosi galoppante, dalla mente che si fa più labile e incerta e dallo svanire di quell’evento nel nostro cuore. Quando il ricordo è forte e vivo non c’è bisogno di dedicarvi una giornata ufficiale e rituale per ricordare. A dir la verità mi augurerei che fossero abolite le giornate mnemoniche degli orrori, affidando la memoria storica al corso ordinario dei giorni, attraverso le lezioni scolastiche, i testi di studio e di lettura, i programmi in tv, le iniziative social, i convegni di studi, le manifestazioni istituzionali o spontanee. Magari concentrando in una festa d’Italia, unica e condivisa, la giornata dell’amor patrio e del nostro legame comunitario, che non può ridursi alla storia del ‘900. La peculiarità delle nostre feste civili è che vengono tenute in piedi e alimentate da un’intenzione polemica, sono sempre feste contro qualcuno, commemorano i giorni del Male o celebrano la cacciata del Maligno, non sono giornate positive della concordia o dell’amor patrio. E sono sempre state feste incentrate su reduci, cioè su persone ancora viventi. In fondo le feste dedicate alla prima guerra mondiale si spensero quando sparirono gli ultimi ragazzi del ’99; così non succede invece con le commemorazioni legate alla seconda guerra mondiale. Una festa nazionale ha grande valore simbolico quando annoda le generazioni, unisce le parti e racconta un mito di fondazione che si tramanda nei secoli. Accade in molti altri paesi. Da noi ci sarebbe il 21 aprile, Fondazione di Roma, se non si fossero sovrapposti gli stucchi della retorica imperiale… L’Italia, che è forse il paese più ricco di storia millenaria, converte la sua bulimia di eventi in anoressia, la sua memoria antica e sovraccarica si rovescia in amnesia. “Scurdammoce o’ passato” resta alla fine l’unico inno nazionale. Ci unisce l’oblio. O la sua traduzione ideologica corrente, la cancel culture.
Il ricordo, spiega Soren Kierkegaard nell’opera In Vino veritas, non è la memoria. Il vecchio, ad esempio, perde la memoria ma gli resta qualcosa di profetico e poetico, i ricordi. Il ragazzo, invece, ha una forte memoria e pochi ricordi. Miopia e presbiopia delle menti, condizionate dalla biologia.
Il ricordo suscita il sentimento della perdita, la nostalgia. “Un fatto nella vita che sia ricordato, è già entrato nell’eternità”. Chi ricorda non è indifferente, mentre la memoria può essere anche un magazzino di date e di fatti. La memoria, poi, è soprattutto pubblica e storica, il ricordo è soprattutto intimo e affettivo: commemori i defunti, ricordi i tuoi cari. Ricordo, lo dice la parola, chiama al cuore; la memoria è più una facoltà intellettiva, mentale. Innamoriamoci della storia, se vogliamo salvare i ricordi e la memoria; nutriamo amore per la storia anziché orrore del passato.
La Verità – 10 febbraio 2024
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