DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “La lingua ideale di cui parla Dante nel De vulgari eloquentia: lo spirito di appartenenza a una patria culturale illustre votata alla grandezza”

Il latino è una lingua precisa e con una sua tradizione culturale già consolidata. Esso è «perpetuo e non corruttibile», è «più bello, virtuoso e più nobile [del volgare]» ed è “comandatore” e non può ubbidire.

Dante Alighieri annovera queste considerazioni per giustificare la sua scelta di aver scritto in volgare il Convivio, opera nata per dimostrare a tutti la grandezza delle proprie conoscenze, mosso da un bisogno di rivalsa agli occhi di molti detrattori e di molti nemici. Il latino perciò non sarebbe stata la scelta migliore perché lingua non atta a essere subordinata a intenti così bassi.

È invece scritto in latino il De vulgari eloquentia, breve trattato in cui Dante conduce una rigorosa disamina delle caratteristiche che, secondo lui, dovrebbe avere la lingua italiana per farsi strumento ideale in grado di comunicare lo spirito e l’anima di tutto il popolo.

Alla base della decisione dantesca di scegliere il latino anziché il volgare sta la necessità di dare a quest’opera la forma antica e tradizionale di un trattato di retorica. Carico di una passione e di un ardore indefessi, ma retto da una lucidità di modi e da un inattaccabile rigore procedurale, il De vulgari eloquentia è rivolto a lettori colti ed esperti affinché essi accolgano la proposta dantesca in vista di una sua futura realizzazione.

Il ragionamento elaborato da Dante parte dalla necessità di dimostrare che un approccio limitato a un’ottica localistica sarebbe inadeguato a individuare le qualità di una lingua comune. Stabilito il carattere sentimentale del legame che unisce l’uomo alla propria patria, non si tratta di circoscrivere lo sguardo all’interno dei limiti di una municipalità o dei confini del proprio comune di provenienza.

L’istanza culturale che Dante interpreta è di respiro più ampio. Una lingua, intesa come espressione dello spirito di un popolo, deve eludere ogni particolarismo e farsi mezzo in grado di stringere legami a livello collettivo. Trattandosi del popolo italiano tale lingua è necessario che sia illustre e prestigiosa.

Le origini della tradizione italiana hanno un carattere aulico. Le prime manifestazioni dello spirito italico sono date dagli esempi di una produzione letteraria di livello alto attraverso la quale, nel corso del Duecento, l’Italia ha assunto notevole prestigio. Il livello alto della materia trattata e la bellezza retorica e sonora della forma sono gli elementi intorno ai quali si identifica lo spirito del popolo che se ne è fatto interprete.

A Dante non interessa la lingua del volgo. Non è di tipo semplicisticamente comunicativo il criterio selettivo che egli si propone di applicare quando appronta il vaglio delle qualità che questo volgare ideale deve avere, a discapito degli idiomi che costituiscono il panorama linguistico offerto dalla penisola italica all’inizio del Trecento.

Il volgo viene accusato di bestiale inettitudine in molti luoghi dell’attività letteraria di Dante, in quanto ritenuto incapace di discernere e facilmente ingannabile, non in grado di ragionare né di cogliere la verità.

Rivolgendosi a Cangrande della Scala, invece, Dante dice: «Ma a noi cui è concesso di conoscere l’ottimo che è in noi, non conviene seguire le vestigia del gregge, anzi siamo tenuti a correggerne gli errori. Infatti coloro che vivono con intelletto e con ragione, e sono dotati di una certa divina libertà, non sono costretti da nessuna consuetudine […]» (Cfr. Epistola XIII a Cangrande della Scala).

Nel ragionamento di Dante il volgare illustre italiano si definisce, invero, sotto forma di astrazione, senza riferimenti concreti alla realtà delle lingue realmente parlate. Artificiale, ma anche esemplare, il valore che questo volgare italiano deve avere è quello di farsi sintesi ed emblema linguistico a cui tendere.

Il volgare italiano, destinato dunque al livello più alto delle forme espressive, deve possedere specifici attributi. Dante lo definisce “illustre”, “cardinale”, “regale” e “curiale”.

Proprio per la sua capacità di dar lustro e di rischiarare, il volgare italiano deve elevarsi sulla rozzezza espressiva, rifiutare la bassezza e la trivialità del linguaggio parlato, depurare dalle scelte erronee di chi non ha cultura e ammaestrare mostrando la retta via.

Punto di riferimento ed elemento portante dello sviluppo culturale (appunto “cardinale”), il volgare italiano deve guidare tutte le altre parlate come fa un capofamiglia. L’idioma principale italiano, superiore a tutte le altre lingue per gloria e per virtù, deve ispirare instradando tutti verso la nobiltà e verso contenuti e valori alti.

Se l’Italia avesse un reggente e se questo governatore si trovasse in una reggia, ebbene è lì che il volgare dovrebbe trovare dimora e dovrebbe essere usato. Allo stesso modo, il fatto che questo volgare illustre abbia regole precise e che le sue caratteristiche siano state bilanciate artificialmente e in maniera equilibrata, lo rende adatto a farsi veicolo comunicativo all’interno di un consesso di nobili e di prelati, in una curia cioè, che però in Italia, allo stato attuale, non esiste.

Il De vulgari eloquentia contiene solo due libri. Avrebbe dovuto comprenderne quattro ma il proposito iniziale rimane disatteso. Dante si rende conto che quanto espone nella prima parte dell’opera risulta sufficiente. Il progetto dantesco cambia, a un certo punto, e comincia a svilupparsi lungo prospettive di gran lunga più lungimiranti rispetto a quelle segnate attraverso la stesura di questo trattato linguistico.

Il quale però attesta una verità incontrovertibile. E cioè che lo spirito di italianità è già maturo nella mente dei grandi. Esso si presenta come senso di appartenenza identitaria fondato sulla condivisione di virtù e di intenti sublimi. Lungi dalla possibilità di configurarsi sotto forma di nazione, l’Italia è già una realtà che, nella lingua, precorre idealmente la sua futura superiorità culturale.

Quello di Dante è un proposito da realizzare, non ancora attestabile nei fatti. Nel Trecento nessuna tra le quattordici lingue realmente parlate nella nostra penisola incarna pienamente le qualità e i caratteri che il grande poeta fiorentino illustra.

Tra tutti è il volgare siciliano quello che possiede il maggior numero di caratteristiche proposte da Dante nel suo modello ideale di lingua perfetta. L’idea di unirsi tutti in una futura comunità in cui virtù e nobiltà siano gli elementi qualitativi verso i quali convergere, è comunque un intento ancora troppo astratto.

L’Italia però è già allora all’avanguardia in tutta l’Europa per quanto riguarda la cultura umanistica. La storia della lingua e della letteratura italiana fornisce, sin dalle Origini, una palese testimonianza del perseverante desiderio di unità che si sviluppa nel corso del tempo attraverso le manifestazioni della scrittura e nello sviluppo del pensiero e delle idee.

Un’annotazione di Raffaele La Capria, riportata sulla Stampa in un articolo del 2011 (scritto da Gian Luigi Beccaria in occasione dei centocinquant’anni dall’unificazione politica del nostro paese), è in tal senso illuminante: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia».

Appare profetico il messaggio che le parole di La Capria ispirano. Benché un’unità politica nazionale sia stata finalmente raggiunta nel 1861, sembra però che quell’unità italiana, fatta di intenti, di sentimenti, di orgoglio e di valori condivisi, dobbiamo continuare a ribadirla e sforzarci di affermarla ancora, ogni giorno.

Forse è proprio questa la nostra missione: quella di lottare per rifondarlo davvero quello spirito di patria che dal profondo ci accomuna, nei fatti della cultura, nell’organizzazione della struttura della politica e nell’omogeneità dei nostri propositi ispirati alla grandezza.

5 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “La lingua ideale di cui parla Dante nel De vulgari eloquentia: lo spirito di appartenenza a una patria culturale illustre votata alla grandezza”

  1. Certo, la lingua, la nostra lingua connota, insieme ad altre insigni manifestazioni artistiche, la nostra appartenenza alla italianità. L’italiano, lingua bellissima, caratterizza egregiamente il nostro orgoglio patriottico. Considero essa stessa, la lingua italiana, una manifestazione artistica. A proposito poi, Davide, del merito della commissione sulla Scuola, che coordini, plaudo, senza alcun dubbio, alla proposta di Andreina di inserire lo studio del latino fin dalle elementari. Le declinazioni, fin dalla prima, quando la ricettività mentale dei bambini è al suo massimo. Proposta da tenere in seria considerazione.

    1. La lingua auspicata da Dante è un ideale. Vale il messaggio di auspicio affinché italiano significhi bello, nobile, illustre, aulico. Sì, proprio come la sua poesia. Proprio come l’idea di altezza artistica che ci unisce. Proprio come quella virtù che sostanzia il nostro spirito patriottico per il quale riteniamo, come lui, che l’Italia sia il Paese numero uno al mondo. Nella mia, e nostra, proposta di un nuovo modello di scuola il latino è materia il cui studio è decisamente anticipato rispetto al liceo. Imprescindibile il latino affinché si accresca in Italia quel livello intellettuale al momento tanto basso.

  2. Riprendo il commento precedente e mi scuso per l’involontario invio di un testo incompleto.
    Sono convinta che per ricostruire l’orgoglio di essere italiani si debba necessariamente ripartire anche dalla ricostruzione dell’uso corretto della lingua italiana. Sarebbe ancora meglio reintrodurre il latino tra le materie scolastiche fin dalle elementari.
    Purtroppo io sono arrivata alle scuole medie quando già era stato eliminato l’insegnamento del latino e ne sento molto la mancanza.
    A questo cerco di ovviare leggendo, ma troverei molto interessante ed utile un corso di latino, magari tenuto dal Prof. Ficarra…

    1. Dante considerava bestiale il volgo. Non era dal volgo che bisognava ripartire per ispirare l’italianità più nobile. Oggi mi sento di condividere ancora una volta il suo approccio. La bestialità del volgo è il rifiuto del nostro spirito patriottico. La lingua deve essere improntata sul valore intrinseco dell’idea di patria che, per l’Italia, è nobile, alto, legato a una tradizione letteraria. Il turpe volgo non dovrebbe nemmeno avere dignità di cittadinanza. Io gliela toglierei! Non sapere usare l’italiano è segno dell’attuazione del proposito di ridurre l’umanità a quel meticciato inconsapevole della propria identità alla base del nuovo ordine mondiale.

  3. Ogni volta che leggo i tuoi scritti, caro Davide, m colpisce la loro attualità. Anche in questa occasione non è mancata questa impressione e mi son ritrovata a pensare al linguaggio usato oggi, infarcito di anglicismi ((sovente usati anche a sproposito), e zeppo di errori lessicali e grammaticali.
    Quanti, soprattutto giovani, non sono in grado di pronunciare una frase corretta e tutta in italiano!
    Questa carenza si riflette sulla vita quotidiana, anche lavorativa, e produce danni.
    Spesso mi capita di sentire parlare correttamente l’italiano ad una persona anziana, quasi sempre senza titolo di studio , che magari in famiglia e con gli amici si esprime in dialetto, che non da ragazzi giovani, e che pure hanno avuto la fortuna dell’obbligo scolastico,
    Dante inorridirebbe!
    La differenza, a mio parere,è che Dante era ispirato da valori elevati, quali l’aspirazione ad una unica Nazione che potesse diffondere nel mondo la sua grandezza culturale.
    Ai tempi nostri, invece,nulla ha più valore del denaro e dell’apparire.

Lascia un commento

error: Questo contenuto è protetto