La necessità di attribuire uno status giuridico al crescente “Partito degli astensionisti”, coloro che non votano alle elezioni perché non si sentono rappresentati da nessun partito o disertando le urne, o scarabocchiando o lasciando in bianco la scheda

Qualche anno fa, correva l’anno 2015, pubblicavo un saggio dal titolo «Lo Stato moderno. Diritti, politica e cittadinanza», nel quale, oltre a tutta una serie di riflessioni, richiamavo il principio sostenuto dal politologo statunitense Robert Dahl (1915-2014) secondo cui si può parlare di pieno ed effettivo riconoscimento dei diritti politici solo quando l’elettorato attivo e passivo è posto nella condizione di esercitarli in elezioni libere, cioè senza condizionamenti; pluralistiche, vale a dire partecipate da più liste in competizione; ricorrenti, ovvero svolte periodicamente con scadenza prestabilita per legge.
Ebbene, oggi, con il presente contributo, intendo aggiungere un particolare che se fino a qualche anno fa aveva senza dubbio una certa rilevanza, adesso, secondo un certo pensiero critico verso chi ha governato il nostro Paese negli ultimi due anni – emanando provvedimenti a dir poco discutibili da ogni punto di vista, con l’assenso nemmeno tanto latente delle opposizioni –, credo che tale rilevanza si sia elevata ai massimi livelli. Mi riferisco al fenomeno dell’astensionismo alle elezioni politiche, inevitabilmente legato all’esercizio di voto inteso come dovere civico ai sensi del secondo periodo del secondo comma dell’articolo 48 della Costituzione.

Tuttavia, se in tali casi di violazione del dovere civico trattasi, a mio avviso sorge più di una domanda. Per esempio: può essere messo sullo stesso piano chi non si reca alle urne per mero menefreghismo, sciatteria, imperizia, irriverenza od altro, con chi decide scientemente di non recarsi alle urne perché ritiene non essere rappresentato da nessuno dei partiti, liste e coalizioni in competizione? Ed inoltre: che dire poi di chi si reca alle urne e nella segretezza del voto, costituzionalmente garantita, decide di annullare la propria scheda elettorale scrivendoci sopra epiteti di ogni genere, oppure restituirla in bianco? Perciò: se chi decide di non recarsi alle urne perché non ha fiducia di nessuno dei candidati politici viola un dovere, coloro degli altri esempi poco sopra, come dovrebbero essere definiti?

Una questione da poco conto? Non proprio, e ciò per almeno quattro motivi di seguito sintetizzati.
Il primo motivo, credo possa essere ricondotto al fatto che coloro i quali decidono di non recarsi alle urne perché non hanno fiducia di nessuno dei candidati politici lasciano traccia proprio perché assenti, dunque esposti a potenziale etichettamento e discriminazione per aver violato quel dovere civico di cui in narrativa. La traccia indelebile della propria assenza è presto detta, si pensi solo che l’elettore deve essere prima di tutto identificato nel momento che accede al seggio, esibendo un documento di identità e relativa tessera elettorale. Contestualmente uno scrutatore appone sulla tessera elettorale stessa il timbro della sezione e la data, nonché annota il numero della medesima tessera ed altri dati sul registro in dotazione al seggio.
Il secondo motivo è per certi versi anche peggiore del primo. Infatti, se chi non si reca alle urne per i motivi anzidetti lascia traccia esponendosi come anticipato a potenziale etichettamento e discriminazione per aver violato un dovere civico, riguardo gli scarabocchiatori seriali e per chi consegna la scheda elettorale in bianco non solo nulla può essere loro imputato, poiché indimostrabile, ma, paradossalmente, questi soggetti sono annoverati tra coloro i quali hanno diligentemente, si fa per dire, adempiuto al dovere civico imposto dalla Costituzione, proprio perché risultano – prova per tabulas inopinabile – essersi recati alle urne.
Il terzo motivo credo invece poterlo ricondurre ad un principio costituzionale di rango superiore rispetto al concetto di dovere civico, è cioè alla libertà di azione, di autodeterminazione e di libera manifestazione del pensiero di ogni individuo, che a mio avviso dovrebbe poter essere esercitata, quest’ultima, anche attraverso il dissenso. Diritto, quello del dissenso, nel caso in esame, violato nel momento in cui coloro che decidono di non recarsi alle urne – perché ritengono non essere rappresentati da nessuno dei partiti, liste e coalizioni in competizione – si macchiano di ignavia per aver violato un dovere civico.
Con il quarto motivo cerco invece di dare spazio a coloro che considerano la scheda bianca un voto (sempre) di protesta, mentre tale non considerano la scheda nulla nel caso di errore dell’elettore, per esempio, nell’aver espresso una certa preferenza. Ma se prendiamo come valido l’assunto di scheda bianca come forma di protesta, perché non dovrebbe essere considerata tale anche quella con su scritti epiteti di ogni genere? Dopodiché, perché la scheda bianca è considerata apoditticamente come un voto di protesta anziché come “espressione” di indecisione dell’elettore di chi scegliere come rappresentate politico? Del resto, l’indecisione non necessariamente coincide con la fiducia, infatti, chiedo: come può mettersi sullo stesso piano il mero dissenso/protesta con il concetto di fiducia, ergo di eventuale sfiducia di tutti i candidati politici in lista?

Ebbene, giunti a questo punto, ci si potrebbe porre legittimamente una domanda: come i Padri costituenti giunsero a stabilire che il diritto di voto fosse tutt’uno col dovere civico di esercitarlo? In realtà, il testo, come oggi lo conosciamo, del secondo periodo del secondo comma dell’art. 48 Cost. «Il suo esercizio è dovere civico», non fu poi così scontato ed immediato.
Tant’è, solo per fare un esempio, il giurista Orazio Condorelli (1897-1969) sollevò alcune perplessità affermando: «Qui è il caso di uscire dagli infingimenti, dagli equivoci. Si è voluto porre questo problema della obbligatorietà o meno del voto, ed allora questo problema si ponga chiaramente e si inviti la Costituente a decidere se il voto debba essere obbligatorio o libero, se la Costituzione debba creare una preclusione all’obbligatorietà del voto (…). Per ora non c’è altra alternativa: o sopprimere la seconda parte di questo comma, che è perfettamente inutile (per me le definizioni nel diritto sono sempre superflue, quando non sono pericolose) e far passare l’articolo senza questa inutile ed errata pregiudiziale; o fermarci all’affermazione che dice «il diritto è un dovere civico. E questo basta, perché i doveri civici possono essere sanzionati e non sanzionati. Ci sono tanti doveri civici che non sono sanzionati, come ce ne sono degli altri sanzionati. Sarà il legislatore che dovrà decidere».

La discussione verteva soprattutto sul fatto se porre o meno una inibizione al futuro legislatore nel rendere giuridicamente obbligatorio il voto, quindi eventualmente sanzionando in qualche modo chi avesse violato tale obbligo. Tuttavia, nessuno, specie oggi, si è posto e si pone la questione da me citata in narrativa di una ipotesi, nemmeno tanto astratta, di etichettamento e discriminazione nei confronti di chi non ritiene aver fiducia nei confronti dell’elettorato passivo, ovvero coloro che avendone pieni diritti decidono di candidarsi a ricoprire cariche elettive, manifestando tale dissenso o stato d’animo astenendosi dall’esercitare il proprio diritto di voto.
Infine, dando voce a chi si chiede il perché la politica, intesa in tutte le sue articolazioni istituzionali, ha timore di superare la questione qui in oggetto eliminando quella sorta di obbligo morale, costituzionalmente circoscritto come dovere civico, credo gli si possa rispondere che per primo andrebbe affrontato il tema generale della fiducia nei politici e dei politici o aspiranti tali – che dal punto di vista sociologico rimando ad altra pubblicazione –, tenuto conto che questa problematica è fortemente influenzata non solo dal principio della discutibile onestà intellettuale di ognuno di loro, ma in taluni casi, forse troppi, anche dal proprio agire antigiuridico negli anni ampiamente emerso.
Sicché, concludo con uno scritto inedito (2005) di Giovanni Sartori (1924-2017), tra i massimi esperti di scienze politiche a livello internazionale, per cui «Non è vero (di fatto) che il popolo abbia sempre ragione. Spesso ha torto. Il principio della democrazia è che ha (il popolo, s’intende) il diritto di sbagliare. Ma se sbaglia troppo e troppo spesso, allora la democrazia è nei guai. Guai che sono oggi aggravati dalla incompetenza dei competenti».

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