DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Rerum vulgarium fragmenta CXXVI (2a Parte)”

Chiare, fresche et dolci acque,

ove le belle membra

pose colei che sola a me par donna:

gentil ramo ove piacque

(con sospir mi rimembra)                                                  

a lei di fare al bel fianco colonna:

erba e fior che la gonna

leggiadra ricoperse

co l’angelico seno;

aere sacro, sereno,                                                              

ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:

date udïenza insieme

a le dolenti mie parole estreme.

 

S’egli è pur mio destino

e ‘l cielo in ciò s’adopra,                                                      

ch’Amor quest’occhi lacrimando chiuda,

qualche grazia il meschino

corpo fra voi ricopra,

e torni l’alma al proprio albergo ignuda.

La morte fia meno cruda                                                       

se questa spene porto

a quel dubbioso passo:

chè lo spirito lasso

non poria mai in più riposato porto

né in più tranquilla fossa                                                        

fuggir la carne travagliata e l’ossa.

 

Tempo verrà ancor forse

ch’a l’usato soggiorno

torni la fera bella e mansüeta

e là ‘v’ella mi scorse

nel benedetto giorno,                                                              

volga la vista disïosa e lieta,

cercandomi: et, o pieta! ,

già terra in fra le pietre

vedendo, Amor l’inspiri

in guisa che sospiri

sì dolcemente che mercè m’impetre,

s faccia forza al cielo,

asciugandosi gli occhi col bel velo.

 

Da’ be’ rami scendea

(dolce ne la memoria)

una pioggia di fior’ sovra ‘l suo grembo;

ed ella si sedea

umile in tanta gloria,

coverta già dell’amoroso nembo.

Qual fior cadea sul lembo,

qual su le trecce bionde,

ch’oro forbito e perle

eran quel dì a vederle

qual si posava in terra e qual su l’onde,

qual con un vago errore

girando parea dir: Qui regna Amore.

 

Quante volte diss’io

allor pien di spavento:

Costei per fermo nacque in paradiso.

Così carco d’oblio

il divin portamento

e ‘l volto e le parole e’l dolce riso

m’aveano, e sì diviso

da l’imagine vera,

ch’i’ dicea sospirando:

“Qui come venn’io o quando? ;

credendo esser in ciel, non là dov’era.

Da indi in qua mi piace

quest’erba sì, ch’altrove non ò pace.

 

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,

poresti arditamente

uscir del bosco, e gir infra la gente.

 

Canzone di 5 stanze, di endecasillabi e settenari, e con congedo finale, col seguente schema metrico:

a,b,C,a,b,C,c,d,e,e,D,f,F. (AbB)

 

Strofa III

Nella terza strofa il corpo torna ad essere un’entità positiva. Nella fronte della terza strofa si presenta nuovamente l’immagine di Laura, definita “fera bella et mansueta” e si ripropone il tema dell’incontro tra la donna e il poeta. Nella sirma, in opposizione antitetica alla fronte, compare nuovamente il corpo di Petrarca, definito “terra infra le pietre”. Questa espressione suggerisce il recupero da parte del poeta, del passo dantesco del XXV canto del Purgatorio “in terra è terra il mio corpo, e saragli”. All’immagine di origine dantesca segue, sempre in sirma, una scena anch’essa dantesca ma di origine biblica. Il quadro di Laura che sospira e piange sulla tomba appartata e solitaria del poeta si configura come l’immagine della donna che assume l’ufficio, proprio dei santi e della Vergine, di intercedere presso Dio vincendo la giustizia divina col suo pianto.

La terza strofa è caratterizzata, al suo interno, così come le prime due, da elementi di unità e di frattura, che riflettono l’ordinamento complessivo di tutto il componimento. Tra fronte e sirma si instaura un rapporto di contrasto dovuto, ancora una volta, all’accentuarsi, in sirma, di tonalità “religiose” e “sacre” che, però, complessivamente rimandano comunque a un orizzonte di valori e di contenuti decisamente profani. Benché Laura sia ritratta nella sua capacità angelica di intercedere a favore del poeta presso Dio, la forza che la spinge è pur sempre quella di un amore profano e materiale. Ricca è la strofa, soprattutto in sirma, di accostamenti ossimorici e di soluzioni antitetiche: cfr. , ad esempio, nei vv. 35 – 36 sospiri sì dolcemente, in cui si individua un netto contrasto tra il concetto di sospirare e l’avverbio “dolcemente” o, ancora, il contrasto forte che si individua tra l’idea tenue di “impetrare” per chiedere grazia per il poeta, da parte di Laura, espressa al verso 37, e il concetto di “far forza al cielo” del verso successivo. Importante conferma: con una punta di empietà, l’immagine di Laura che fa forza al cielo asciugandosi gli occhi col bel velo ( vv. 37-38), cioè con la sua grazia femminile resa più affascinante dalla mestizia e dalle lacrime, è pervasa da un sottile, squisito erotismo tutto profano.

 

Uno sguardo complessivo

Forti sono i parallelismi tra le strofe. La struttura generale del componimento è caratterizzata da una costruzione per richiami e simmetrie che realizzano un procedimento caratterizzato al contempo da unitarietà e frammentarietà. Al tema dell’amore come personalità benevola, all’accezione euforica dell’entità del corpo e della fisicità si sostituisce, nella seconda strofa, la rappresentazione del polo disforico dell’esperienza d’amore. In essa si sviluppa il tema della Morte e si configura il corpo, questa volta non quello di Laura ma quello del poeta, come entità negativa e moritura. Nella terza strofa il corpo torna ad essere un’entità positiva.

La quarta strofa si ricollega alla prima attraverso l’atto rievocativo che la memoria del poeta in essa produce, sviluppando definitivamente il tema del corpo con l’immagine quasi edenica dell’apparizione miracolosa di Laura. In essa, inoltre, si chiude la simmetria chiastica dell’ordinamento dei piani temporali della canzone e si completa il percorso della memoria e dell’immaginazione del poeta che si sviluppa, lungo il componimento, nell’alternanza delle strofe.  La prima strofa rievoca il passato, l’apparizione di Laura. Solo in chiusura, negli ultimi due versi, si affaccia il presente, la condizione dolorosa da cui il poeta vuol fuggire. La seconda strofa si proietta allora nel futuro, nella fantasia consolatrice di un riposo dopo la morte, tra quelle presenze naturali amiche. Ancora nel futuro è collocata la terza strofa, dove si sviluppa un’altra fantasia consolante, su Laura divenuta pietosa che si commuove sopra la tomba del poeta e intercede per lui presso Dio. La quarta ritorna al passato, ed è perfettamente simmetrica alla prima (compare anche la parola chiave: «dolce nella memoria», con un richiamo a distanza a «con sospir mi rimembra» della prima strofa).

 

Strofe IV E V

La modalità secondo cui Petrarca raffigura la scena dell’apparizione di Laura è perfettamente rispondente alla rappresentazione dantesca dell’apparizione di Beatrice nel Purgatorio e si confà alla tradizione del motivo topico, di origine classica, della “pioggia di fiori”. L’immagine leggiadra ed elegante di Laura seduta ricoperta di un nembo di fiori è un’immagine che celebra la donna nella sua bellezza e nella sua grazia. In maniera perfettamente speculare al commento della Vita Nova a Tanto gentile, Laura appare al poeta humile in tanta gloria, priva di superbia quindi, e soprattutto disposta a lasciarsi invadere dalla forza d’Amore. Oltre al concetto dell’“umiltà” dell’atteggiamento di Laura, Petrarca ripropone, inoltre, l’idea, anch’essa tradizionale e dantesca, della suggestione angelica e dell’origine divina della donna: l’espressione del v. 55 della V strofa Costei per certo nacque in paradiso rimanda, però, forse più direttamente, al Teseida di Boccaccio, in cui Emilia appare per la prima volta in un giardino, tra i fiori, suscitando lo stupore di Arcita il quale “disse fra sé: ‘Quest’è di paradiso!’ ” (III 12, 8) e di Palemone: “la qual come la vide, in voce viva / disse: -Per certo questa è Citerea” (III 14, 5-6). Il riferimento boccacciano dimostra ulteriormente come il testo del Petrarca si collochi in un orizzonte profano, del tutto mondano, caratterizzato da motivi che sfuggono a qualsiasi interpretazione che risulti in linea con le direttive dantesche della Vita Nova.

Il riferimento alla sacralità e alla parvenza paradisiaca di Laura non è dettato da motivazioni sentimentali di tipo religioso. Si tratta invece di un topos tipicamente stilnovistico. La quinta strofa della canzone sembra contenere la dichiarazione esplicita della empietà dello scenario fin qui visualizzato dal poeta. La convinzione, per Petrarca, che le origini di Laura siano paradisiache viene a lui in un momento di oblio della realtà e di allontanamento dall’ “immagine vera”, di sbigottimento stupito e meravigliato. L’essenza angelica della donna amata non ha concrete e reali radici. Essa è, piuttosto, il risultato di una percezione fallace e del tutto limitata all’apparenza, che si esaurisce in un’ottica puramente impressionistica ed estetica e che nulla ha di intrinsecamente veritiero. Il “divin portamento” di Laura, che insieme al “volto e le parole e ‘l dolce riso” ha inebriato a tal punto il poeta fino a proiettarlo in una sorta di alternativa dimensione paradisiaca, è soltanto un aspetto legato alla immagine fisica della donna e annoverato per realizzare al più alto livello la glorificazione stessa e la lode trionfale della sua bellezza.

 

2 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Rerum vulgarium fragmenta CXXVI (2a Parte)”

    1. Grande Gabriele, sono felice che tu abbia ricavato questo bel beneficio dalla lettura della mia analisi di questa meravigliosa e famosissima poesia di Petrarca. Ringrazio te per aver speso un po’ del tuo tempo per leggermi e, ti confesso, mi inorgoglisce essere riuscito a farti “ri-vivere” un momento di ritorno alla fanciullezza liceale. Sai, a volte penso proprio che leggere o rileggere la poesia possa significare rimanere ragazzi, non solo attraverso le suggestioni che vengono da un, pur nobile, trasporto emozionale ma anche, e forse soprattutto, attraverso il coinvolgimento intellettuale e penetrando nel profondo contenuti e forma dell’arte letteraria.

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