Chi trova un amico trova un tesoro, se l’amico è anche un medico, è un grosso affare. Lo si è visto in questi ultimi tragici due anni, in cui persone sono state costrette a supplicare per avere una visita o almeno un consiglio, e dannatamente spesso il consiglio è stato: tachipirina e vigile attesa, vale a dire un farmaco pessimo che abbatte il glutatione e non combatte l’infiammazione e il consiglio a sprecare tempo prezioso. Molto utile anche un amico santo. La santità non è molto di moda. È molto più cool la noia abissale dell’anticonformismo tutto uguale. Abbiamo il conformismo del tatuaggio, il conformismo della cannabis, il conformismo di inventarsi di essere migliori, tenendo tanto al clima: in realtà vivono come gli altri, vanno dal parrucchiere a tingersi i capelli di viola, consumano come gli altri, inquinano come gli altri, ma poi vanno a imbrattare quadri o bloccano le strade, così si sentono migliori. I santi al contrario possono essere magnifici amici. Non soffrono di depressione, mai. La speranza è una virtù teologica, non meno importante di fede e carità. Da qui si deduce che la disperazione è un’arma del nemico. Essere lagnosi implica due peccati: perdita di speranza e perdita di carità perché il lagnoso è un buco nero, qualcuno che distrugge la tua fede nella vita senza guadagnarci niente, anzi, stando peggio lui. Cerchiamo i santi.
Le Edizioni Ares, contro ogni conformismo, hanno inaugurato una nuova collana Un santo per amico. In passato libri come questi si chiamavano: le vite di santi, ed erano praticamente ovunque. Te li regalavano per la Prima Comunione e casomai te ne fossi perso qualcuno, per la Cresima. Erano storie notevoli, di gente che non aveva avuto paura di niente, che aveva fatto scelte spesso contrarie alla famiglia, quando non direttamente dello Stato, aveva solcato i mari, era salita sui patiboli, fondato lebbrosari in isole incantate quanto maledette, comandato eserciti. E soprattutto erano sempre stati illuminati della fede, non erano stati lagnosi, un esempio spettacolare in un’epoca di tragica autocommiserazione. Negli ultimi sessant’anni la depressione aumentata del 1200 %. Aver perso le vite dei santi non sarà stata l’unica causa di questo disastro, ma potrebbe aver contribuito. Nel dubbio ricominciamo a studiarcele. Con una scelta molto comprensibile in un’epoca di vite ed economie distrutte da una cosiddetta pandemia, la collana della Ares si inaugura con due santi medici: Giuseppe Moscati e Riccardo Pampuri, una scelta decisamente provvidenziale. I lettori possono scoprire due uomini che hanno fuso la professione medica con un profondo amore per l’uomo, un amore mediato dall’amore per Dio, quindi enorme. Grazie a questo amore hanno soffuso la loro opera di speranza. La speranza è una medicina, non si tratta di una figura retorica, ma di una realtà biochimica e fisiologica. Sperare, pregare, sentire che Dio ci ama ma anche sentire che il nostro medico tiene a noi, ci fa fabbricare endorfine, i potentissimi neurotrasmettitori che diminuiscono la percezione del dolore e potenza nel sistema immunitario. La prima uscita è il Giuseppe Moscati. Il santo medico, di Paolo Gulisano, medico a sua volta. Giuseppe Moscati è stato un medico e accademico campano (Benevento 1880-Napoli 1927), primario dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Era un uomo del sud e in quel periodo le università meridionali erano una vera eccellenza. La Chiesa lo ha proclamato Santo per la sua capacità di curare insieme la mente e il corpo, ma soprattutto l’anima. In tutta la sua vita ha fatto quello che ogni medico, ma anche ogni cristiano deve fare: lenire la sofferenza. «Beati noi medici», ha scritto Moscati, «tanto spesso incapaci ad allontanare una malattia, beati noi se ci ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stesse». Giuseppe Moscati, santo medico, è stato un grandissimo scienziato. I suoi studi sul diabete sono stati fondamentali e sono stati pubblicati sulle maggiori riviste scientifiche nazionali e internazionali dell’epoca. È stato descritto come il medico dei poveri. In realtà era il medico di tutti. Era profondamente credente, e la sua fede lo spingeva a lavorare 12 ore al giorno. Cominciava sempre la giornata con la Santa messa con una devozione eucaristica straordinaria. Non permetteva che la giornata finisse, anche se era stanchissimo, senza la recita del Rosario. Oggi verrebbe definito bigotto e ultra cattolico, in realtà era la sua fede che gli dava la forza di stringere i denti non mollare, di trascinarsi durante le terribili epidemie di colera di spagnola da una casa all’altra oppure da un tugurio all’altro, senza aver paura del contagio, inghiottendo la fatica terribile e la necessità di dormire. Era primario nell’ Ospedale degli incurabili, un nome tremendo per un luogo tremendo, o forse no. Un luogo che sarebbe stato tremendo se lui non avesse portato sotto quelle volte rinascimentali la speranza e la fede. A Napoli aveva un ambulatorio, e nella sua sala d’aspetto aveva posto una cassetta, aperta, su cui era scritto: chi può dia, chi non può prenda, una ridistribuzione dei redditi tipicamente cattolica. In quella cassetta sono passati fiumi di denaro. I pazienti che curava, grati, lasciavano tutto quel che potevano, perché non ci fosse disperazione nelle case di coloro che non avevano nulla. Chi non aveva nulla, chi non sapeva come preparare la cena, passava dal dottor Moscati certo che nella cassettina avrebbe trovato qualcosa. È un santo spaventosamente attuale perché si è mosso in due grandissime epidemie, due epidemie di malattie con altissima mortalità, il colera nel 1912 e nel 1918 la spagnola. Lo ripeto: lui andava a vedere i pazienti a casa, ovviamente, perché un vero medico deve andare a vedere i malati : non si può curare se non si toccano i pazienti. Chi ha paura degli incendi, non faccia il vigile del fuoco, chi è terrorizzato dall’altezza non faccia l’acrobata e chi teme il contagio, non faccia il medico. I malati migliorano quando il medico si china su di loro. È morto a soli 47 anni, accasciato nel suo ambulatorio, morto al suo posto di combattimento, come un soldato muore in trincea, come un cavaliere muore durante la carica. Grandissima la sua testimonianza di fede. Tutto quello che faceva, lo faceva per Cristo. Avrebbe potuto arricchirsi, con tutte le visite che faceva, ma lui si è sempre comportato come un grandissimo cristiano medico. A volte anche ammoniva pazienti, che magari dovevano cambiare stile di vita: l’ordine di smettere di ubriacarsi salva il fegato ma anche l’anima, l’ordine di smettere di fumare salva i polmoni, ma addestra anche la nostra mente al sacrificio. Moscati sapeva quello che la psicologia e le neuroscienze hanno confermato: la fede è terapeutica, la preghiera è terapeutica. Una fiction televisiva di qualche anno fa non ha neanche lontanamente reso il dovuto merito a questa figura. Lo fa adesso il libro di Paolo Gulisano. È molto bello che la biografia del dottor Moscati sia stata scritta dal medico Paolo Gulisano, uno dei medici in prima fila per curare e guarire la SARS 2 covid 19. È un libro su un medico scritto da un medico. È un libro su un cattolico scritto da un cattolico, perché Gulisano dichiara di avere un grandissimo debito di gratitudine verso la figura di Moscati figura a cui si è sempre ispirato. Il suo non è un libro solo per medici, è un libro per tutti: spiega come ci si possa santificare nella propria condizione, nella propria maniera di vivere. Moscati rinunciò al matrimonio non perché il matrimonio non fosse una cosa bella ma perché non avrebbe potuto rendere felice sua moglie dato che non avrebbe potuto fare a meno di occuparsi dei malati per un numero di ore che erano l’intera vita. La sua missione era lenire il dolore, ed è questo lo scopo della medicina. Oggi ce lo siamo dimenticati. Oggi c’è la medicina dei protocolli non la medicina della cura. Il libro di Camilleri, la seconda biografia della collana, riguarda Riccardo – al secolo Erminio – Pampuri, nato nel1897, diventato prima medico condotto, poi religioso nell’Ordine dei Fatebenefratelli. «Fare tutto, anche le cose minime, con amore grande», era solito raccomandare. Lui visse l’orrore della Prima Guerra Mondiale, corpi mutilati uccisi, migliaia di corpi mutilati e uccisi, e poi il tifo, la scarlattina, la follia che anche riempivano le tricee di dolore. Pampuri ha usato tutta la sua scienza e tutta la sua fede per diminuire le sofferenze gli uomini fino alla sua morte avvenuta a soli 33 anni. È stato sepolto con la sua veste di frate e il fonendoscopio al collo: la sua armatura e il suo scudo.
Medici cattolici.