VITTORIO ZEDDA: “A due anni dall’assassinio di Don Malgesini sgozzato a Como da un islamico che disse «è morto come un cane» evidenzia la grave responsabilità dello Stato”

Don Roberto Malgesini, 51 anni, fu accoltellato e ucciso alle 7 di mattina del 15 settembre 2020 a Como, in piazza San Rocco. La sua vicenda merita una riflessione e a lui la dedico, in questo giorno di Commemorazione dei Defunti.

Il suo assassino fu un tunisino di 53 anni, con vari decreti di espulsione, comminati a partire dal 2015. Senza fissa dimora, era ritenuto persona con problemi psichici, peraltro non diagnosticati. Usufruiva saltuariamente di un dormitorio pubblico e spesso di uno spazio messo a disposizione da don Malgesini nei locali parrocchiali. Il sacerdote da anni portava la prima colazione ai bisognosi. Anche quel giorno don Roberto iniziò la distribuzione delle colazioni, utilizzando la sua Panda, all’uopo attrezzata con tutto il necessario. Trovò però l’omicida ad aspettarlo. Don Roberto lo conosceva: gli forniva assistenza ed era con lui in buoni rapporti, come con tutti. Cosa sia successo con precisione non si sa.

Don Roberto fu colpito da varie coltellate, quella letale al collo, in un piccolo spiazzo urbano in cui si trovano solitamente gli immigrati. Inutili i soccorsi dei sanitari. La polizia scientifica trovò un coltello insanguinato, l’arma del delitto, a poca distanza dal luogo del fattaccio. Poco dopo l’omicida si costituì presso la caserma dei carabinieri.

Don Malgesini coordinava i volontari che ogni mattina portavano un tè caldo o qualcosa da bere ai senzatetto di Como. Serviva inoltre alla mensa dei poveri e al dormitorio. Consigliava e assisteva chi si trovava in situazioni di marginalità e stringeva relazioni profonde con tutti.

«È morto servendo i poveri, come faceva tutti i giorni», fu il commento della Curia.

Don Malgesini fu un martire, nonché un testimone di carità cristiana. Non un complice, come definito da alcuni commenti malevoli sulla stampa e i social, sui quali ci fu chi volle accusare il sacerdote di aver aiutato il suo futuro assassino a restare in Italia, nonostante ben due decreti di espulsione, non ottemperati. Com’è noto chi protegge o agevola un comportamento illegale si rende imputabile di favoreggiamento. E se il personaggio che è stato per qualsiasi motivo protetto si macchia di azioni criminali nel periodo della sua permanenza illegale in Italia, il suo “protettore” può essere imputabile di corresponsabilità più o meno gravi. Quindi aiutare un clandestino espulso a restare in Italia potrebbe configurarsi, una volta accertati i fatti, come un atto di varia gravità o come un comportamento potenzialmente pericoloso verso la società e l’ordine pubblico. Da ciò l’opinabile accusa di complicità al sacerdote, per giunta vittima.

Prescindendo dal tragico epilogo, peraltro gli argomenti addotti a carico di don Roberto, con discutibili forzature, non ebbero riscontri plausibili. Forse don Roberto avrebbe dovuto fare di più per convincere il clandestino a costituirsi. Ho letto però che aveva consigliato al tunisino di rivolgersi ad un avvocato. Quindi il sacerdote aveva preso in considerazione un percorso di uscita per il suo assistito da una situazione di illegalità aggravata da reiterazioni di illeciti non precisati. L’assistenza di un avvocato sarebbe stata in ogni caso necessaria.

Il tentativo di don Roberto di sostenere il clandestino nel suo percorso di uscita dall’illegalità, seppur in prospettiva attraverso un possibile temporaneo ingresso in carcere, già all’epoca mi parve escludere la frettolosa accusa di complicità a carico del sacerdote. Ma se anche così non fosse stato, veniva e viene spontaneo chiedersi perché ben due provvedimenti di espulsione non avessero avuto, almeno il secondo, un’esecuzione coatta da parte della magistratura, tramite la forza pubblica.

Se gli organi dello Stato prendono provvedimenti reiteratamente inefficaci, la responsabilità, se non la complicità, di tale inefficacia dovrebbe essere eccepibile a carico delle autorità che non hanno esercitato la necessaria vigilanza sul caso in questione. Pare, però, che il decreto di allontanamento di un indesiderato si concretizzi unicamente con la consegna formale all’espulso del relativo provvedimento scritto. Dopo di che il destinatario del provvedimento, in assenza di controlli da parte delle autorità, dovrebbe autonomamente ottemperare al decreto. Viceversa, non ne tiene alcun conto e continua la sua vita da clandestino in Italia, vivendo di espedienti più o meno leciti.

Vedo nell’inefficacia del sistema la causa prima del reiterarsi delle condotte illegali che ne conseguono. Quel clandestino, come riferì la stampa, viveva a Como da 25 anni, collezionando nel tempo provvedimenti giudiziari relativi a vari reati, per nessuno dei quali fra l’altro fu mai accertata ed emessa una diagnosi nota di squilibrio mentale.

E’ diventata ormai una consuetudine, in certi ambienti politici e su alcuni mezzi d’informazione, imputare senza alcun riscontro documentale, un presunto squilibrio mentale connesso ai reati anche sanguinosi commessi da clandestini, specie se provenienti da paesi islamici. Anche per l’episodio sopra narrato, comparve immediatamente sulla stampa la stessa difesa d’ufficio: pazzia, peraltro non diagnosticata. Dopo aver pugnalato alle spalle e poi sgozzato don Roberto, secondo la stampa, l’assassino dichiarò alla polizia che il sacerdote era «morto come un cane». E lo disse, come venne riferito, con fredda lucidità scevra di qualsiasi pentimento. Perché l’aveva ucciso? Perché, secondo la cronaca, l’assassino imputava al sacerdote di avergli consigliato «l’avvocato sbagliato».

«I miei guai sono anche colpa tua», avrebbe detto l’assassino alla sua vittima mentre la uccideva, sempre secondo la stampa. Una vittima cui è assurdo attribuire il reato di complicità. Una complicità che appare invece in certa politica di governo che continua ad accettare l’ingresso in Italia di clandestini, che hanno eliminato i propri documenti di riconoscimento per rendere più difficile alle autorità italiane la verifica sia della loro identità sia dei presunti diritti alla protezione e all’asilo politico o umanitario. L’uso dei mezzi della Marina e della Guardia Costiera ai fini del traghettamento verso l’Italia di clandestini in avvicinamento alle nostre coste, posto in atto anche in assenza di eventi di naufragio, avvenuti o temuti, fa pensare a irregolarità che precedono di molto e a ben altro livello quelle presunte e non accertate di don Roberto. Clandestini che vengono fatti sbarcare nei nostri porti e accolti in strutture d’accoglienza dai quali gli “ospiti” fuggono in tutte le direzioni, senza che le autorità mostrino di essere in grado di garantire in modo efficace il controllo di persone che sul nostro territorio avrebbero dovuto essere custodite e vigilate, in attesa delle verifiche del caso.

Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel nostro paese trova origine in responsabilità poste a livello assai più elevato di quello del povero sacerdote, immolato sull’altare dell’amore cristiano, proprio per mano di colui cui quotidianamente procurava la colazione e un alloggio di fortuna. Martire di carità, senza dubbio. E forse, martire anche delle responsabilità della politica nella illegalità dilagante ad ogni livello, che angustia i cittadini e uccide innocenti.

Vittorio Zedda
(9 novembre 2022)

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