VITTORIO ZEDDA: “In via Osoppo i milanesi sono stati sostituiti dagli islamici”

Via Osoppo, Milano. Quelli della mia generazione ancora associano il nome della strada ad una famosa rapina che lì venne messa a segno ai danni di un furgone porta-valori. Tanto che il nome della via, che dovrebbe ricordare alcuni eventi storici, richiama a tanti milanesi solo quel fatto di cronaca.

Era la mattina del 27 febbraio 1958. Per i milanesi il 27 del mese, giorno in cui si prendeva lo stipendio, era il giorno di “san Paganino”, l’unico santo ignoto alla Chiesa, ma ciò nondimeno rievocato con ricorrenza mensile. Giorno ideale per le losche intenzioni di una banda di sette uomini, membri di quella malavita milanese che allora si chiamava, in dialetto, “ligera”, forse per la leggerezza delle tasche vuote o per l’avventatezza con cui affrontava la vita e il rischio. Un tipo di malavita che non esiste più, soppiantata da altre e più truci e pure d’importazione, in coerenza, direi, con la generale perdita di identità e … tradizioni.
Ebbene, quella banda congegnò ed eseguì con precisione e tempismo “milanese” un colpo rimasto famoso per l’entità del bottino, la rapidità dell’azione e l’assenza di spargimento di sangue. La combriccola non era priva di pratica nell’arte delle imboscate, da alcuni apprese durante la guerra partigiana.
È un fatto storicamente assodato, che non pochi partigiani provenivano dalla “ligera” o entrarono dopo la guerra a farne parte e furono protagonisti di vicende, narrate in libri autobiografici e in alcune note canzoni.
Una fra tutte, la celeberrima “Ma mi”, in dialetto milanese, che sentii cantare per la prima volta dalla viva voce di un amico dei miei verdi anni, Enzo Jannacci.
Ricordi a parte, torno in via Osoppo. La banda aveva studiato il percorso del furgone porta-valori, carico di buste-paga, e con il tempismo necessario lo bloccò, chiudendogli la strada con un’auto improvvisamente posta di traverso e speronandolo con un’altra vettura, carica con gli addetti al “prelievo” dell’autentico tesoro trasportato: oltre 500 milioni di lire, tra contanti, assegni e titoli. L’azione durò pochi minuti.

Il trambusto improvviso destò però l’immediata reazione degli abitanti della via. Da una finestra un signore gridò «Ai ladri, ai ladri!». Un altro bersagliò i malviventi lanciando bottiglie da un ultimo piano e una signora su un balcone bombardò con vasi di fiori la banda, ma senza colpire nessuno.
La cosa straordinaria è che un bandito, brandendo un mitra, tentò di spaventare i cittadini alle finestre, puntandoli con l’arma e gridando «Ta ta ta ta». Sparò “a voce”: «Ta ta ta ta».

Altri tempi. Oggi basta che in una strada affollata uno gridi «Allahu akbar» e si fa il vuoto attorno. E potrebbero seguire anche gli spari veri, o peggio. Allora, invece, il coraggio dei cittadini riempì le cronache dei giornali.
Una corpulenta signora, che usciva dal negozio del fruttivendolo carica delle borse della spesa, urlò con quanta voce aveva in gola: «Bruta gent, ‘ndè a laurà!» (Brutta gente, andate a lavorare!).
Molto milanese, anche la risposta di un bandito: «E, secondo lei, cosa stiamo facendo?».

Qui mi fermo, ma il ricordo è ridestato da tutt’altro che vedo attorno. Sto attraversando il grande mercato che occupa l’intera via Osoppo, il giovedì e il sabato. Oggi, 26 novembre, c’è una folla da suk arabo. Fino a venti-trenta anni fa, la maggioranza dei fruttivendoli erano pugliesi. Ne ricordo uno che inalberava orgogliosamente su un’insegna la scritta «Al banco dei terroni». Non c’è più quel banco.
Oggi molti ambulanti sono marocchini. Sento contrattazioni in magrebino. Quasi la metà delle donne che fanno la spesa sono velate, con abiti lunghi fino ai piedi. Alcune coprono anche il viso. Spingono carrozzine con neonati e hanno attorno ciascuna altri bimbi piccoli.
Da un anno all’altro vedo quel mercato diventare sempre più arabo. Fra poco sarà solo arabo. Intere strade qui attorno sono abitate quasi unicamente da stranieri. Nelle vicinanze c’è un quartiere che la gente chiamava, una decina d’anni fa, “il triangolo dei mascherati”. L’allusione era ai visi, coperti fino agli occhi, di tante donne.

Conosco questa parte di Milano, strada per strada: trentadue anni fa ero dirigente delle scuole di un quartiere, qui vicino. Non incontro più visi noti. La popolazione originaria è stata sostituita. E’ una popolazione nuova che mostra apertamente di essere diversa da noi, e lo mette bene in chiaro. Il vestiario femminile ha l’effetto di marcare il territorio, di rimarcare l’estraneità e tenere le distanze. Altro che integrazione.
La musulmana deve essere riconoscibile come tale: lo prescrive la loro dottrina. La musulmana, per gli uomini della sua religione, in quanto sorella nella fede, non deve essere molestata. L’abito serve, e così è scritto nei sacri testi, a far sapere al maschio che quella donna è intoccabile.
Troppi intendono che il rispetto è dovuto solo alla donna coperta da capo a piedi, e a tutte le altre, no. Anzi credono che laddove non vige il divieto, vige la liceità di molestare, se non addirittura l’obbligo di farlo per affermare una superiorità religiosa.

Ho ricordato in un precedente articolo, gli stupri della notte di capodanno in piazza del Duomo, a Milano, repliche di fatti simili avvenuti a Colonia e in tante altre città d’Europa. Sono conseguenza di quella mentalità “religiosa”, intollerabile e immodificabile.
Le donne del mercato non hanno colpa di nulla. Portano addosso il segno di una realtà oppressiva, di una sottomissione cupa. O credono o subiscono. L’evidenza del fenomeno mostra e dimostra la progressiva sovrapposizione di una realtà umana non integrabile, su un tessuto umano preesistente, che scompare.
Non aggiungo altro perché la questione è ben nota e le conseguenze sembrano inevitabili. Mentre me ne vado da via Osoppo, mi ritrovo a pensare quasi con simpatia a quel bandito che sessantaquattro anni fa sparava “a voce” il suo innocuo «Ta ta ta ta», bersagliato dall’alto con vasi di fiori e fieramente redarguito da una casalinga. In milanese.

Vittorio Zedda

(27 novembre 2022)

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