DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: ” L’idea mazziniana di “letteratura sociale” e l’aristocraticità intellettuale di Leopardi: l’immortalità dell’opera leopardiana”

Poesia “individualistica”, e perciò condannabile, è agli occhi di Mazzini quella di Leopardi. Poesia che nasce da un’ispirazione soggettiva e lirica, personale, indifferente agli altri, tutta proiettata su di sé, e perciò sterile.

I suoi canti, dice Mazzini,

 

spirano un alito di profonda malinconia tutto proprio della nostra età. Pur non sono che sforzi d’un periodo di transizione che il futuro cancellerà.

 

Secondo Mazzini, la poesia leopardiana è rappresentativa della decadenza e dello spirito malinconico di un’età che non ha ancora maturato la coscienza di un rinnovamento della realtà e che si limita a piangere per le sconfitte e le perdite del passato, rispetto alle quali risulta incapace di proporre un’alternativa costruttiva e valida, al di là di un semplice lamento e di un rimpianto.

Quella a cui aspira Mazzini è, invece, una poesia e una letteratura in cui il poeta si faccia interprete di tutto il popolo, e si innalzi dalla sua specifica individualità per essere portavoce di contenuti “veri” e corrispondenti alle aspirazioni e alle aspettative di tutti.

Mazzini auspica una “poesia dell’avvenire”, che risponda alle esigenze di un mondo nuovo così come si viene configurando, un mondo che è quello della socialità, non dell’individualismo:

 

La poesia dell’avvenire, la poesia dei popoli è la sola viva e potente.

 

Una poesia che abbia un impegno concreto di intervento effettivo nella storia, che attraverso un progetto di educazione degli uomini a quegli stessi principi universali che la politica deve realizzare, faccia da sostegno a un’ideologia militante e coinvolta, e si configuri, essa stessa, come un’attività pratica e responsabile, che non scada mai al livello semplicistico e superficiale di una confessione privata d’ “angusti sentimenti”, che non “viva e muoia” senza uscire mai all’infuori di sé, ma che si rivolga attivamente ed entusiasticamente “agli altri” per comunicare i suoi contenuti.

Mazzini fonda il suo modello di letteratura sull’idea di democrazia che sta al centro della sua ideologia e sottolinea il significato etico che la poesia deve comunicare esaltando, in nome del “bene collettivo”, un ideale, quasi “religioso”, di uguaglianza.

E per questo motivo essa deve affermare il “sentimento” di appartenenza di tutti gli uomini alla comunità, per la riconquista delle certezze esistenziali che la crisi moderna ha smarrito, per riaccostare l’uomo al concreto della realtà, e farlo coinvolgendolo emotivamente e facendo nascere in lui una rinnovata “fede” che respinga ogni “insurrezione” di pessimismo e ogni angoscia esistenziale. 

Mazzini rinnega e liquida l’esperienza poetica di Leopardi perché apparentemente essa non è direttamente in linea con questi presupposti. Secondo lui, Leopardi si rivela sì un poeta, ma un poeta dall’animo vuoto e indifferente, che si appiattisce al livello scadente della produzione poetica e letteraria sentimentalistica e dai toni malinconici e tristi dell’Ottocento, e che dietro l’apparenza di una superficiale delicatezza degli affetti e di una morbidezza dei modi e delle forme, nasconde la freddezza e il senso di apatia di un’epoca disillusa dei propri ideali, e che ha perso i suoi valori e i suoi entusiasmi.

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Significativo è il rifiuto, da parte di De Sanctis, di una siffatta condanna di Leopardi, formulata nei termini di una assoluta mancanza di riconoscimento della sua eccezionalità e della sua grandezza, una condanna espressa sottolineando, in maniera marcata, la presunta influenza condizionante e negativa sulla poesia del Recanatese, di un contesto generale di decadenza e di crisi.

È inaccettabile per il critico irpino l’idea che Leopardi possa essere ridotto a un intellettuale solamente accondiscendente alle idee che stanno alla base della cultura di un romanticismo esasperato, in cui l’accentuata propensione soggettivistica è segno di una mentalità, in fondo, reazionaria ed estranea a una prospettiva progressista e di crescita future.

De Sanctis sostiene, come si è già visto, l’immortalità dell’opera leopardiana, non il carattere “transitorio” della sua esperienza e riconosce proprio nell’aristocratica posizione di lontananza e di solipsistica chiusura del poeta, la riaffermazione di una coscienza e di una mentalità progressiva e di sviluppo.

Quello di Leopardi non è un pianto su se stesso, né una rinuncia all’esistenza attiva o una evasione dalla realtà, ma un atteggiamento contemplativo e di meditazione riscattato da ogni apatia e da ogni passività, indirizzato ad acquisire consapevolezza della natura e dell’essenza della realtà e dell’uomo.

La solitudine di Leopardi è quella condizione dell’uomo saggio e aristocraticamente al di sopra degli altri, il quale da pensatore “disinteressato” e solitario, si pone in rapporto col mondo e con la storia dall’esterno, e studia il mondo e la storia con libertà di pensiero e con lucidità e obiettività.

Mosso dalla necessità di affrancare la ragione dall’utilitarismo e dal corruttivo servilismo cui era stata costretta da una cultura “schiavizzata” e coattivamente vincolata al potere ufficiale, il poeta afferma la dignità, l’intrinseco valore e la legittima autonomia di un impegno di meditazione ponderato saggiamente, al di là di ogni interesse materiale e di ogni stimolo solamente opportunistico e falso all’attività intellettuale e scientifica.

Riconquista del pensiero alla “concretezza” dei contenuti della speculazione sull’uomo, abolizione di ogni metafisica, quella di Leopardi è una riaffermazione della necessità dell’“azione” sull’astrattezza del disimpegno e sulla pigrizia e l’inattività insite in un atteggiamento di pensiero vuoto ed “evasivo”.

Si tratta di riaffermare un valore e un senso positivo della umana esistenza e della storia, affermazione di una dignità intrinseca all’uomo stesso, fatto oggetto di scientifica indagine e di studio, una riconquista condotta attraverso il rifiuto di ogni superficiale adesione a programmi teorici e inevitabilmente retorici, irrisoluti e incerti di cambiamento e di trasformazione della realtà.

Al di là di soluzioni conciliatorie e utopistiche, che pongono la questione nei termini di “rifondare una fiducia” sulla prospettiva ottimistica di vita e di esistenza che l’uomo intende costruirsi, in Leopardi c’è il serio credo sul valore disinteressato e autosufficiente dell’uomo, sulla sua capacità di condurre naturalmente la storia e la propria esistenza.

Solo l’uomo che ha il potere di forgiarsi “individualmente”, senza opportunismi, senza compromessi né false speranze, può collocarsi con consapevolezza all’interno della realtà del presente e porre le fondamenta per costruire razionalmente il suo futuro.

L’uomo che, abolendo ogni illusorio mito collettivo, riscoprendosi individuo, trova all’interno di sé le potenzialità per rinascere, egli stesso, come collettività.

6 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: ” L’idea mazziniana di “letteratura sociale” e l’aristocraticità intellettuale di Leopardi: l’immortalità dell’opera leopardiana”

  1. Trovo che lo scritto di Davide centri bene la questione fondamentale della poetica Leopardiana, cioè non tanto una apatica o esterna compartecipazione al mondo come fosse un intellettuale chiuso nella sua torre d’avorio, anche se così può sembrare nella sua casa paterna, ma un vero ricercatore dell’anima umana, del senso dell’esistenza di tutti, tutta la società, il garzone, la donzelletta, il popolo che scorre nella piazza del sabato del villaggio, che non gli è estraneo, né nemico, anzi, fisicamente gli manca e soffre ma su spinge nel profondo delle essenze umane dei rapporti sperati e sognati.
    Mazzini da politico, massone, pre socialista, concepisce anche la poesia solo come ancella o incitazione politica, sociale e rivolta alla comunità. Dimenticando che prima di essere ‘civile’ come diciamo oggi, deve fare i conti col profondo dell’uomo, capirne limiti e bisogni e soprattutto quale è il suo posto nello sviluppi e realizzazuone comune, che non lo schiacci o ignori. Suo intento, di Leopardi, non era essere un cantore guerriero, ma un Poeta, un ricercatore di senso che indichi comunque una via che parta dalla singola esperienza ma che confluisca nel patire e agire comune contro una natura matrigna. Capisco le interessanti obiezioni di Gualdo. Ma anch’io come Davide penso non sia giusto porre giudizi di merito che travalicano epoche e situazioni, viste col metro di poi, sempre molto soggettivo. Perché la storia come la politica ha le sue epoche, non confrontabili con unico denominatore.
    Brecht e Pasolini, per esempio, credo siano meno efficaci quando sono ‘politici’, perché in quel momento servono l’ideologia, senza chiedersi se è più o meno sbagliata.
    Oggi forse il poeta penso sia un non etichettato, un uomo che osserva sé stesso e gli altri senza filtri, che si sforza di vedere la luce oltre ogni buio, e la testimonia. E la sua luce non resterà sotto il moggio.

  2. Giuseppe Mazzini non considerò nel suo tempo il fatto che la poesia, per sua intima natura, è lirica e solipsistica, dagli antichi greci ai primi decenni del secondo dopoguerra del Novecento. Dopo questo periodo sono pochi i poeti di valore che scrivono poesia autentica. Salverei i poeti dialettali, la cui lingua intrisa di parole e locuzioni originali, almeno io la sento umana e terrestre.
    Il contesto sociale in cui viviamo è privo di poesia
    I rapporti interpersonali e intimo sono basati sulla convenienza e sulla praticità, soffusi di un generale ipocritismo.
    Il genere di poesia “civile” che auspicava Mazzini è stata praticata dal Leopardi stesso, in modi stentorei non molto convincenti; lo stesso dicasi per il Pascoli. Più bella e autorevole furono i brevi poemetti del Carducci. Nel corso del Novecento alcuni posti russi e del mondo occidentale hanno scritto poesie cosidette civili, a mio parere con esiti minori rispetto alla loro produzione lirica. Unica eccezione fu B. Brecht e in Italia P.P. Pasolini, soprattutto con i due capolavori de “Le ceneri di Gramsci” e “La religione del mio tempo”
    In questi primi decenni del duemila non vedo ch, o almeno non conosco, poeti “civili”. Chi si vuole affermare nel campo della letteratura sceglie,?per ispirazione o convenienza, il genere giallo-thriller, che a me personalmente, non attira. Ovviamente ritengo che la letteratura non è affatto morta e i casi di molti autori, nati verso la fine del secolo scorso, lo stanno ad attestare.

    1. Grazie del tuo commento, Gualdo. Concordo con te sul carattere intrinsecamente lirico dell’ispirazione poetica sincera. Devo però aggiungere la seguente osservazione. Non esiste la letteratura sociale che Mazzini si auspica nasca e rifondi una coscienza popolare collettiva. Mazzini è un importante uomo politico del suo tempo che, però, non aveva capito granché della vera poesia la quale, senza limiti di tempo né di spazio, si eleva al di sopra di tendenze e movimenti. Leopardi fa poesia civile perché la sua è vera poesia e non è affatto stentorea. Altresì non posso appoggiare il modo in cui ti approcci a una classificazione generale del valore letterario delle prove di diversi autori che metti sullo stesso piano, relazionandoli tra loro senza attenti criteri analitici. Il mio consiglio è quello di evitare di dare giudizi di valore. Gli autori vanno contestualizzati storicamente. Ognuno di noi può avere i suoi orientamenti di gusto e sentire di apprezzare maggiormente un autore o un altro, per svariati motivi. Ma starei molto attento a fare confronti tra grandissimi della nostra storia letteraria. Poniamoci umilmente nei confronti del nostro passato e anche del nostro presente. Il mio articolo lo dice esplicitamente, nella sua parte conclusiva, quale è il serio credo sul valore disinteressato dell’uomo, sulla sua capacità di condurre la storia e la propria esistenza. Impariamo da Leopardi.

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