Nell’anno che volge al termine è crollato il ghiacciaio della Marmolada. Per oltre cinquant’anni ho fatto escursioni e scalate su tante cime dell’arco alpino. Ero stato anche su quella vetta, tanti anni fa, salendo per il ghiacciaio che ora non c’è più. In Sicilia, salii sull’Etna fino ad affacciarmi sul pauroso cratere apicale ad oltre 3.300 metri di quota. Lo racconterò, prima o poi.
Una volta volai di sotto, scivolando sul ghiaccio: ero sulla Punta Presena, nel gruppo dell’Adamello. Mi andò bene, altrimenti non sarei qui a scriverlo.
La montagna è una grande scuola di vita. Si impara qualcosa ad ogni passo. E si impara moltissimo da ogni errore, evitando l’ultimo. La tragedia della Marmolada mi ha colpito particolarmente, conoscendo il luogo.
Una gigantesca porzione del ghiacciaio il 3 luglio del 2022 crollò all’improvviso e frammentandosi in colossali blocchi rotolò giù per il versante nord, correndo a 300 chilometri all’ora.
Undici vite furono distrutte in pochi attimi. Ci ho pensato a lungo. Se fu fatalità o imprudenza, o responsabilità di qualcuno, è difficile e forse inutile provare a dirlo adesso. L’unica risposta possibile l’affidai, pochi giorni dopo la sciagura, al racconto di una mia esperienza di vita, che riporto di seguito.
Le mie esperienze di alpinista iniziarono nei primi anni sessanta. Per qualsiasi escursione si partiva nelle primissime ore del mattino. Erano altri tempi: andavamo in vacanza in montagna, ma ci portavamo la sveglia in albergo o nel rifugio.
Ci imponevamo regole non dissimili da quelle dei ragazzi di leva negli Alpini, ed era cosa normale per gli appassionati di montagna.
Partire alle prime luci dell’alba consentiva di iniziare le salite quando l’aria era ancora molto fresca, talvolta gelida. Ciò alleviava la fatica e rendeva il passo più svelto, per meglio combattere il freddo.
Sapevamo che allorquando il sole fosse stato alto sulle nostre teste, la fatica e il caldo avrebbero reso la salita molto più dura.
Se l’escursione programmata prevedeva l’attraversamento di un ghiacciaio per arrivare ai piedi della montagna da scalare, allora le regole diventavano più severe e inderogabili.
Faccio un solo esempio. Quando nell’estate del 1962 decisi di tentare la salita alla vetta più alta del Bernina nelle Alpi Retiche (metri 4.050, cima svizzera) feci base al rifugio Marinelli-Bombardieri, a quota 1800 m. Mi accordai con una delle guide del rifugio, tale Ignazio Dell’Andrino, che non dimenticherò mai.
La guida mi fissò le regole per poter andare e tornare in giornata: sveglia alle due di notte, colazione e partenza con l’equipaggiamento del caso.
Dovevamo attraversare il ghiacciaio dello Scerscen e le ore più fredde della notte erano le più sicure, perché la bassa temperatura rendeva la neve compatta, dura, e così pure il ghiaccio, che non si sarebbe mosso e non avrebbe permesso l’apertura di nuovi crepacci sotto i nostri piedi.
Inoltre era una notte di luna piena, un’occasione da non perdere: il riverbero della luce lunare sul candore dell’ambiente ci avrebbe illuminato perfettamente il percorso.
E così fu, tanto che, lungo la salita, quasi non m’accorsi del passaggio dalla notte alle prime luci dell’alba.
Passammo sotto cascate ghiacciate, prima che il primo debole calore del giorno iniziasse a ridisciogliere le colate, col rischio di cadute di pezzi di ghiaccio sulle nostre teste.
Passo dopo passo imparavo dalla mia guida le regole da rispettare in alta montagna. Non ve le racconterò tutte, e forse nemmeno tutte le ricordo. Ma non potei dimenticare l’ultima.
Quando arrivammo sulla vetta italiana, di poco più bassa della vetta svizzera, il percorso fra le due vette era una lunga e affilata cresta di neve ghiacciata. Un lungo coltello bianco, con la lama verso l’alto, fra due punte di roccia scura . Avremmo dovuto camminare in equilibrio avendo a destra un precipizio di cinquecento metri e a destra di mille. Lì capii quanto fosse incredibilmente duro il mestiere della guida. Ignazio controllò la legatura della corda su di me e su se stesso e mi indicò il percorso da equilibristi che avremmo dovuto affrontare.
Mi disse: “Siamo legati come si deve. Parto prima io. Vado avanti una trentina di passi, poi lei inizi a seguirmi. (Ci si dava del “lei” all’epoca).
Mi tenga d’occhio: se cado e volo di sotto lei si butti dalla parte opposta. “Così, disse, senza preamboli. Per salvarci dovevamo volare uno da una parte e uno dall’altra di quella cresta a 4000 metri di quota, per farci reciprocamente da contrappeso. Terribile.
Senza attendere risposi secco: “Non faccia delle finte”.
Tornammo giù al rifugio quasi a sera, dopo 18 ore dalla partenza. Gli diedi quanto pattuito e tutto finì con una stretta di mano, mentre con un sorriso ci guardavamo negli occhi, nell’anima.
Non ho dimenticato lui e quelle diciotto ore di lezione. Lezione di vita. Dopo la sciagura della Marmolada, mi auguro che nessuno attraversi più un ghiacciaio in pieno giorno, d’estate. Ma fra poco non ce ne saranno più.
Vittorio Zedda