VITTORIO ZEDDA: “Rissa tra studenti a Firenze, impropria evocazione del fascismo, deplorevoli ritratti dei nostri governanti appesi all’ingiù. Servono Storia condivisa ricomposizione civile”

Una rissa tra studenti a Firenze nello scorso mese di febbraio ha fornito l’ennesimo pretesto per una polemica politica. Quel fatto, deplorevole anche per lo scambio di calci e pugni, non ha avuto conseguenze di insuperabile gravità, né, pare, ha procurato serie lesioni a chi le botte le ha prese.

È noto però a tutti quanto il mondo della politica non perda occasioni per mettere in evidenza contrasti, e agitare l’opinione pubblica a fini di parte, che non è detto rispecchino sempre l’interesse pubblico e il bene comune.
Quindi, più che la scazzottata fra studenti, è stata l’agitazione del cosiddetto “mondo adulto”, con i politicanti ovviamente in prima linea, a fare da lente d’ingrandimento a significati ed intenzioni che nei fatti e dai fatti le parti avverse hanno voluto eccepire.

Da uomo di scuola avrei qualche garbata osservazione da esprimere sulla parte interpretata, nel contesto delle polemiche, da qualche esponente del mondo dell’istruzione. E rimarco “garbata”, conoscendo le difficoltà di interagire in quel mondo. Mi riferisco ad una curiosa esegesi sull’origine del fascismo come “prodotto di una scazzottata da marciapiede”.
Ricorrere a metafore può essere utile ma la storia è un’altra cosa. Per ora mi astengo da approfondimenti sul tema, perché le espressioni civili della buona educazione in uno scontro di toni sopra le righe, potrebbero essere scambiati per ironia polemica. Sembra infatti che i tempi non siano purtroppo ancora maturi per una equilibrata riflessione sulla storia degli ultimi cento anni. E l’odio continua ad alimentare settarismo e violenza, anche dove la cultura, e la gente che la rappresenta, potrebbe e dovrebbe opportunamente manifestarsi e usare i suoi migliori strumenti per risvegliare la coscienza civile e l’umana consapevolezza.

Mi limito qui ed ora a considerare alcuni fatti significativi di problemi irrisolti. Da quando si è insediato il nuovo governo, manifestazioni di piazza e proteste giovanili, hanno spesso fatto ricorso a espedienti comunicativi simili.
Le immagini di esponenti dell’attuale governo, rappresentate da manichini o anche da inequivocabili fotografie, sono stati esposti “a testa in giù” su facciate di edifici, che, mi auguro non siano stati edifici pubblici. Il riferimento ai cadaveri esposti obbrobriosamente appesi per i piedi, negli ultimi giorni dell’aprile 1945 in piazza Loreto a Milano, è stato del tutto evidente ed ha espresso nei confronti di personaggi delle istituzioni oggi viventi un messaggio che definire solo minaccioso è riduttivo rispetto all’odio che ha espresso.
Al posto di un mio personale giudizio, preferisco ricordare le parole di Sandro Pertini, allora membro di spicco del Comitato insurrezionale per l’Alta Italia, e in anni successivi presidente della Repubblica Italiana, il quale di fronte alla belluina esposizione di cadaveri a testa in giù in piazzale Loreto espresse il suo legittimo sdegno. Profondamente amareggiato gridò: «Qui l’insurrezione si è disonorata!». «Disonorata» fu la parola, che è e rimane nella Storia. E, data la fonte di quel giudizio, non è il caso di cercarne un’altra. Poi, in riferimento ai cadaveri usati come bersagli e fatti segno a espressioni di irriferibile vilipendio, aggiunse: «Io ho combattuto contro i vivi, non contro i morti». Esacerbata non fu solo la reazione di Pertini ma anche quella di Ferruccio Parri, che alla vista dello scempio, lo definì «un’esibizione di macelleria messicana». Questi i disgustati commenti di Padri della Repubblica.

Oggi i personaggi viventi effigiati a testa in giù sono uomini e donne delle nostre attuali istituzioni, regolarmente eletti da legittime elezioni democratiche. Va ricordato che da questo ingiurioso trattamento in effigie hanno immediatamente preso le distanze quasi tutti i rappresentanti delle forze politiche presenti in Parlamento, che meno di questo non avrebbero potuto fare.
Ma un’amarezza profonda resta nell’animo di tanti e in particolare della gente di scuola che si chiede che cosa non sia stata capace d’insegnare ai nostri ragazzi, anche a fronte di nobili esempi, sopra citati, che non dovremmo mai stancarci di ricordare alle nuove generazioni.
Perché antifascismo è ispirarsi ai più alti e nobili valori della Resistenza, non certo scimmiottare l’ignobile messinscena di piazzale Loreto che ne ha deturpato l’immagine. I maldestri richiami odierni a piazzale Loreto replicano «l’ignobile macelleria» e il «disonore» evidenziato da Pertini e farsene indecorosamente oggi una bandiera politica rinnova la vergogna e le contraddizioni di quei giorni e ancora infanga il riscatto di un popolo dalla dittatura.

Guerra, liberazione e dopoguerra radicano in una parte della vita di tanti fra noi. Poco conta il fatto che all’epoca fossimo bambini o adolescenti. Fu vita vissuta e molto abbiamo imparato in quegli anni. Essere usciti vivi e sani dalla guerra mondiale, e dai rancorosi eventi del primo dopoguerra, fu percepito come un’insperata fortuna, un segno del destino. Liberatorio e rasserenante, nonostante tutto. E ricco di insegnamenti e valori.

Suscitarono però perplessità, negli anni che seguirono, certe celebrazioni o ricostruzioni storiche degli eventi che portarono all’epilogo della guerra e della resistenza. Perplessità che accomunarono sia chi era stato in qualsiasi misura testimone di quegli eventi, sia chi li aveva conosciuti attraverso la percezione dei fatti che la gente aveva interiorizzato e trasmesso a chi, all’epoca, era ancora troppo giovane per capire. Gli eventi celebrati, o esecrati, apparivano spesso “curvati” a favore di una parte politica, piuttosto che riferiti nella scarna realtà dei fatti.
Quindi se ne contestava, da una parte e dall’altra, la narrazione ufficiale, le opposte ricostruzioni storiche, le attribuzioni di gloria o d’infamia, i giudizi settari, le autoesaltazioni o autoassoluzioni di comodo.
E a proposito di narrazioni “storiche”, un esempio di verità assolutamente scomoda, fu rappresentato nel film “La Ciociara”. Le migliaia di donne stuprate dai “goumiers” marocchini, inquadrati nell’esercito alleato francese, raccontato in quel film, narrò una delle pagine peggiori della guerra. Violenze da imputarsi non ai nazi-fascisti, ma agli alleati che ci “liberarono”.
Una liberazione che su larga scala fu ottenuta con gli spaventosi bombardamenti aerei anglo-americani sulle nostre città! Sanno i nostri ragazzi e i loro insegnanti che quei bombardamenti furono crimini di guerra poiché le convenzioni internazionali all’epoca vigenti vietavano i bombardamenti, e ancor di più i bombardamenti a tappeto, su obiettivi civili? E il fatto che quei crimini vengano quotidianamente replicati nelle guerre in atto non assolve certo né i crimini di oggi, né quelli di ieri.

Ma tornando alla caduta del fascismo, non tutto fu gloria e luce nella guerra di Liberazione. A rompere il silenzio sulle verità scomode, nel più alto contesto istituzionale, fu l’allora neo-eletto presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel suo primo messaggio al Parlamento ricordò la Resistenza, ma alluse anche alle sue zone d’ombra, agli eccessi e alle aberrazioni innegabili. Napolitano, legato a quello schieramento che rivendicava un protagonismo egemone nella guerra partigiana, e quindi nella nascita della Repubblica, restituiva con quel discorso valore politico ad una diversa analisi della vulgata storica ufficiale, considerata fino ad allora l’unica ammissibile e quindi tenuta per decenni al riparo da qualsiasi critica. Ad ogni totalitarismo che muore, surrettiziamente uno nuovo può prenderne il posto. Chi vince “ha ragione” e detta la storia a chi la scrive e a chi l’impara.
Ma troppe nel tempo e nei contesti celebrativi, sono state le omissioni e le sostituzioni indebite. Tra le omissioni si può citare il silenzio sul contributo dato alla Resistenza da migliaia di ex-prigionieri alleati, fuggiti (o semplicemente usciti) dai campi di prigionia sul suolo italiano. Nelle varie formazioni partigiane combatterono inglesi, russi, jugoslavi, polacchi, greci, australiani e cecoslovacchi. Non meno di 5000 uomini. Molti divennero comandanti. Molti i caduti. Contribuirono anche a salvare il buon nome d’Italia e degli italiani, i nostri militari internati in campi di prigionia in varie parti d’Europa. Questa fu chiamata la “Resistenza degli internati” che, a centinaia di migliaia, rifiutarono di collaborare col nemico, nonostante lusinghe o vessazioni d’ogni tipo.
Eppure, finita la guerra, furono per molto tempo ignorati, perché sulla “gloria ufficialmente riconosciuta” pesava un condizionamento politico. A fronte di protagonisti dimenticati, nei cortei celebrativi per la Liberazione compaiono oggi talvolta gruppi e bandiere che con il nostro 25 aprile 1945 hanno poco a che fare.
E mancano invece i segni, almeno simbolici, di tanti che alla Liberazione comunque parteciparono, ed ebbero un ruolo determinante. Cito ad esempio inglesi ed americani (perché no?) presenti sul fronte italiano con il loro imponente potenziale bellico. Dei loro caduti sono pieni cimiteri di guerra sul suolo italiano. Per chi e cosa morirono? Perché nelle sfilate del 25 aprile non c’è, non dico una bandiera, ma nemmeno un cartello che li ricordi? A pochi chilometri da casa mia c’è un cimitero di caduti del Commonwealth, nel parco di Trenno, a Milano. L’età media di quei caduti è scritta sulle lapidi: poco più di vent’anni. Sono più di quattrocento. Impossibile non interrogarsi su quelle giovani vite troncate.
Ma prima degli alleati avrei dovuto ricordare i militari delle forze armate italiane che combatterono dopo l’8 settembre 43 come “cobelligeranti” accanto agli alleati, sia sul suolo italiano, sia nei numerosi teatri di guerra d’Europa e del Mediterraneo, nei quali l’armistizio sorprese i militari italiani in guerra. E’ un lungo elenco di località e per ciascuna, una storia : Corsica, Maquis, Ardenne, Aisne, Lorena, Lione, Grecia, Dodecanneso, Cefalonia, Creta, Albania. E poi Montenegro, Dalmazia, Bosnia, Erzegovina, Croazia e Slovenia, dove talvolta i militari italiani furono accanto agli insorti locali. E quanti militari italiani nel nord Italia, lasciata la divisa, divennero partigiani. Si trattò spesso di soldati definiti “sbandati” perché lasciati senza direttive dopo l’8 settembre, o peggio disorientati dagli ambigui ordini del generale Badoglio. Militari tornati a casa, in famiglia, che vennero a trovarsi nel Nord d’Italia nel momento in cui, sotto la protezione dell’invasore tedesco, nasceva la Repubblica di Salò. Una parte restò con Mussolini: alcuni per convinzione, altri perché l’invasore, altrimenti, li avrebbe trattati da disertori. Tra quelli che si sottrassero all’arruolamento nella RSI, tanti scelsero la Resistenza.
Fu importante la presenza nelle formazioni partigiane di esperti di armi e di tecniche di combattimento provenienti dalle Forze armate italiane. .”( Da “La Resistenza e il contributo delle Forze Armate”- Milanostampa, Farigliano). Ed è questo un dato storico che sfugge in genere alla percezione della gente. E chi può ricordare gli stati d’animo, i sentimenti e i dilemmi di quei giorni. Gli imperativi della coscienza. Il senso del bene comune e del dovere, la fedeltà agli ideali, l’onore e il coraggio, l’amore per la propria gente e la propria terra, il valore dell’impegno personale financo al sacrificio: furono questi sentimenti comuni a chi militò nell’uno e nell’altro degli schieramenti contrapposti, così come furono, purtroppo, in molti casi, comuni le espressioni meno nobili dell’animo umano.
La differenza stette nelle scelte politiche, nelle motivazioni ideali dei contendenti. Diversi furono i condizionamenti del contesto, le esigenze vitali, diverso il quadro valoriale di riferimento che comunque chiamava a commisurarsi e a scegliere. E furono drammi e nodi della coscienza irripetibili, e forse inimmaginabili.

Noi oggi celebriamo quel confronto storico fra fascismo e antifascismo, ma tra celebrazioni d’oggi ed eventi di quell’epoca c’è uno iato, una disconnessione che pare crescente. Pare che gli italiani, che pure sembravano aver fatto pace con un difficile passato già negli anni ’60, quelli del cosiddetto “miracolo economico”, oggi rivivano una sorda, rancorosa e frustrante contrapposizione politica fra opposte fazioni, che pare recuperare l’odio degli ultimi anni di guerra e del primo dopoguerra. Una regressione nel livore e nell’intolleranza che non si può qui trattare compiutamente in poche righe. Paghiamo così gli errori commessi deprecando solo le nefandezze commesse da una parte e tacendo sulle nefandezze commesse dalla parte avversa. E lo stesso si può dire dei meriti. Ma i nodi della storia vengono al pettine. E molti sono quelli riemersi. E chissà quanti altre verità taciute vedranno la luce. Quelli della mia età sono consapevoli di questo scenario di storia occultata che finirà per riemergere per avere lo spazio che merita nella coscienza e in una conoscenza diffusa.

Non posso però tacere su un dato sconfortante di sostanziale ignoranza dei fatti storici, di schematismi nella conoscenza e nella coscienza politica. Un settarismo da tifoseria calcistica, violento e aggressivo negli atti e nelle parole, che ha appreso poco dalla democrazia, ma pratica la prevaricazione e la sopraffazione.
Mi pare il portato di una diseducazione, o di un’educazione che si sta perdendo: quella che dovrebbe formare ad un civile confronto, e ragionato, delle opinioni. E seppure la polemica politica abbia sempre indotto ad inveire o peggio a trascendere, un’educazione di fondo imperniata sull’onestà intellettuale e l’amore per la verità ha sempre costituito il miglior “regolatore interno” a ciascuno, non sempre sufficiente, ma di certo assai più opportuno dell’assenza di qualsiasi pur elementare buona educazione.
Non sono un “laudator temporis acti”. Sono convinto invece che certi valori e significati del vivere debbano essere nuovamente riproposti e reinterpretati, in rapporto ai tempi d’oggi, ma non perduti. Dovremmo più spesso ricordare che le istituzioni della neonata Italia Repubblicana nacquero anche per la capacità di uomini che, pur essendo stati in passato agguerriti avversari, furono capaci di incontrarsi in Parlamento, in un contesto di democrazia, rispettandosi e restituendo al loro rapporto interpersonale il valore primo dell’umanità.
Nel Parlamento della Repubblica democratica e antifascista furono presenti due partiti monarchici e un Movimento Sociale Italiano che radicava nel passato regime sconfitto. Deposte le armi, era altro il modo di confrontarsi. E a maggior ragione dovrebbe essere oggi. Senza il rozzo e becero ricorso a immagini di avversari d’oggi appesi per i piedi, che ci disonorano. E su questo modo di vivere il confronto deve ripartire necessariamente un’azione educativa della scuola e della società, riprendendo un processo ed un percorso lacunoso e incompiuto negli esiti e nella realtà che quotidianamente constatiamo.

Vittorio Zedda

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