Guai a chi critica il capitalismo, viene considerato un nemico della modernità, del benessere e della civiltà liberale. Ancora peggio se critica nel capitalismo non solo il materialismo e il prevalere dell’economia, ma il suo essere una plutocrazia, un regime fondato sul potere della ricchezza. Plutocrazia è l’espressione che usò Mussolini quando si scagliò contro le democrazie occidentali, annunciando l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Poi succede che scopri, a sorpresa, uno scritto del padre del liberalismo italiano e dell’antifascismo liberale, Benedetto Croce. Uno scritto del 1928 per un giornale americano, il St.Louis Post-Dispatch, in cui Croce attacca duramente il materialismo storico anche nella versione capitalista. Ma lo fa, si, partendo da Marx e dal comunismo, ma poi accomunando nella condanna il capitalismo occidentale. Per Croce, lo stesso materialismo si esprime “nella classe capitalistica e plutocratica”, che si difende contro il comunismo usando le stesse armi: “In alcuni paesi ha addirittura copiato i metodi e gl’istituti delle dittature operaie, procurando di metterli a servigio di dittature capitalistico-plutocratiche o di combinazioni eclettiche”. E non solo. Croce li accusa di essere “poco sensibili ad altri interessi spirituali e sforniti o poco curiosi della correlativa cultura”. E auspica che l’umanità si affidi a “gente spirituale”, fondatori e riformatori di religioni, apostoli, sacerdoti, o uomini d’intelletto e di sapere, oltre che appassionati di politica e di idee. Senza di loro, nota Croce, i plutocrati (o mutatis mutandis in regime comunista, gli operai) si affiderebbero a retori, demagoghi, adulatori e avventurieri della penna. Ecco descritti gli intellettuali organici al potere e al capitale. Croce reputa che sia un errore affidare a una classe sociale, siano essi i capitalisti, gli industriali, i banchieri, che i soviet degli operai, la direzione della società. La classe dirigente, per Croce, non deve rappresentare una classe o un blocco di interessi sociali ed economici ma un ideale etico e il primato della politica, “con i suoi concetti religiosi, filosofici, morali, quali che siano”. E’ una critica ante litteram al dominio del capitalismo, dei tecnocrati, e all’Europa dei mercati e dei mercanti. Fatta da Croce, il difensore della civiltà liberale.
A dir la verità, l’espressione plutocrazia prima di Mussolini fu usata anche da studiosi d’impronta liberal-conservatrice come Vilfredo Pareto. Croce scrive che la libertà “non ha qualità e origini economiche ma morali e religiose”, è “la forma moderna del cristianesimo”. Quello scritto crociano fu poi ripubblicato l’anno dopo, ossia nel 1929, l’anno orribile di Wall Street, in un volume intitolato “The drift of civilisation”.
Ma Croce lo pubblicò anche in Italia, in un volumetto del 1934, per un editore minore milanese, poi scomparso, Gilardi e Noto. Un libretto dimenticato, mai più ristampato, col titolo Orientamenti, e il sottotitolo Piccoli saggi di filosofia politica. Un libro che volle poi dimenticare, non solo per quello scritto anticapitalistico, ma per alcuni pensieri poi divenuti imbarazzanti, come la critica al marxismo “su quanto di giudaico, di millenario e di antistorico entrò a costituire la concezione marxistica del materialismo storico”. A quelle critiche al bolscevismo, alla sua “grossolanità pseudofilosofica” e alla “loro arte arida e disumana”, ne aggiunge altre verso il nascente Terzo Reich e la germanizzazione forzata del cristianesimo. Croce poi condanna l’apolitia, che in realtà è – a suo dire- totale apatia. Da buon conservatore, davanti all’ebbrezza dei cambiamenti, Croce nota che “il cangiamento delle cose si effettua per la costanza dei principi”; viceversa se cambiano pure i principi “niente più cangerebbe, il cosmo piomberebbe nel caos”. La frenetica Vitalità, dice Croce, sostituisce “il vecchio Dovere”, annullando la morale. I cambiamenti rispondono a un ordine, e obbediscono a principi immutabili, altrimenti sono solo dissoluzione. La stessa decadenza per Croce “è un momento eterno del progresso stesso, bisogna liberarsi della illusione del progresso senza decadenza”.
Il libretto crociano si conclude con due stroncature. Una, minore, di Ernest Bergmann e della sua curiosa ideologia ginecocratica: potere alle donne, in una visione millenaristica e darwiniana. L’altra, invece, riguarda Oswald Spengler di cui Croce aveva già stroncato il Tramonto dell’Occidente. Qui se la prende con l’Uomo e la Tecnica, un saggio del 1931. Con Spengler Croce perde le staffe e insulta senza riguardi: ritiene la sua “un’immaginaria tela teorica tessuta sopra una reale bassezza o rozzezza d’animo”: giudica la sua visione eroica da “imbecille-disperato”: critica poi la figura spengleriana del soldato romano di Pompei che al momento dell’eruzione del Vesuvio non fu sciolto dalla consegna e restò a far da sentinella. Spengler elogiava il suo eroismo fino alla morte, la sua ubbidienza assoluta; Croce invece reputa insensato quel suo restare fedele alla consegna; in quei casi “meglio ammazzarsi o inebbriarsi o cercare altre più o meno gradevoli e voluttuose forme di autodissoluzione”. Poi critica la visione spengleriana della tecnica, sottolineando l’illogicità, l’acrisia, il dilettantismo, il cupo pessimismo. E arriva a scrivere: “Lo stolto “pangermanista” non è ancora sparito dal mondo (morirà nel 1936, e comunque era più giovane di lui). Terribile.
Profetica la chiusa del libretto crociano “Ah, come ci siamo imbecilliti in Europa! E mi esprimo, non senza umiltà in prima persona plurale perché l’imbecillimento è contagioso, e ciascuno vedendo intorno a sé tanta gente colpita dal male, deve temere che il contagio si sia attaccato in qualche misura anche a lui, o che possa attaccarglisi. Che Dio ci tenda le sue sante mani sul capo!”. Solo un Dio ci può salvare, dirà poi Heidegger…Che Dio salvi l’Europa dall’imbecillità, l’invocazione di Croce vale pure oggi.
(Il Borghese, aprile)
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