DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “La roba: il miglioramento del proprio destino come definitiva degradazione umana”

Un viandante che percorreva la strada che lo conduceva lungo la piana di Catania, nei pressi del lago di Lentini, attraverso gli aranceti di Francofonte e i pascoli di Passanitello, vicino al paese di Vizzini, nelle ore più calde del giorno, se domandava a qualcuno di chi fossero quelle proprietà, si sentiva rispondere sempre che era tutto di Mazzarò.

Inizia così, come una fiaba, la modernissima novella La roba, esemplare racconto pubblicato da Verga nel 1883 e inserito, poi, nella raccolta Novelle rusticane. Un’ampia accumulazione di particolari paesaggistici arricchisce la digressione introduttiva, operando uno “zoom” sui tanti elementi naturali che costituiscono il bel contesto rurale della Sicilia orientale.

Stormi di galline appollaiate vicino a un pozzo, una lettiga che malinconicamente sembra emettere una melodia col risuonare dei suoi campanelli passando per la campagna, muli che ciondolano la coda e poi, «cammina cammina», vigneti smisurati che si allargano su colli e piani, e uliveti senza un filo d’erba. E poi ancora gli aratri che tornano dal maggese quando il sole è già al tramonto e il pastore col suo fischio riecheggiante e il canto che si perde nella valle.

In perfetto stile cinematografico, l’inquadratura alla fine si allarga e Verga ci presenta l’efficace immagine, evocata, di un Mazzarò disteso tutto sulle sue terre al punto che sembra quasi di camminargli sulla pancia, tanto sono ampi i suoi possedimenti da identificarlo, in senso panico, con ciò che possiede.

Nella novella non viene fatta una precisa descrizione delle terre di Mazzarò, ma vi si presenta l’idea della loro smisurata grandezza attraverso l’espediente del viandante che, nell’arco di un’intera giornata, le attraversa.

Come nel mondo fiabesco descritto da Perrault, l’incipit narrativo della novella di Verga fa ricorso al sentimento della meraviglia per stimolare la fantasia del lettore alimentandone lo stupore man mano che la lettura procede accompagnando il viandante, proprio fino al momento topico in cui si esplicita il paradosso dell’identificazione materiale tra proprietario e proprietà.

A partire da questo momento, però, ogni componente fiabesca e ogni riferimento al mondo meraviglioso della fantasia cessano, per decretare definitivamente il loro annullamento e la loro inattualità.

Alla meraviglia iniziale subentrano bruscamente le motivazioni tutte e solo economiche e materiali per le quali Mazzarò ha trascorso la sua intera esistenza a «fare della roba». Mazzarò viene descritto come un uomo insignificante, ironicamente piccolo di statura, il cui passato è quello di chi ha vissuto l’umiliazione del duro lavoro e della povertà. Prima di accumulare tutte queste ricchezze, egli ha trascorso giornate intere, da mattina a sera, a lavorare su quelle stesse terre che ora possiede.

Dopo aver ricevuto «calci nel di dietro» da tanti che ora gli danno «dell’eccellenza», Mazzarò, il quale ha «la testa come un brillante», «non è montato in superbia» ma, forte delle sue superiori capacità, ha dedicato la vita ad accumulare ricchezze, continuando a farlo in maniera incessante.

Egli non si mostra interessato al denaro, cioè non punta al guadagno quantificabile e finalizzato a un obiettivo, ma si dedica al processo stesso dell’acquisizione di ricchezza, prodotta in maniera incessante. Postosi l’obiettivo di diventare più ricco di un re, Mazzarò vende e compra non accumulando denaro ma usandolo per ottenere sempre nuova “roba”. Dedito a una vita grama e senza vizi, il protagonista sacrifica ogni piacere in virtù di un arricchimento spasmodico e senza limiti.

Mazzarò è figura esemplare di un’estremizzazione della morale del guadagno economico: egli è protagonista di una perpetua accumulazione di beni lungo il corso di tutta la sua vita, privata del godimento stesso di quei beni.

Per lui si attiva un circolo vizioso: senza concedersi distrazioni di alcun tipo, l’unico suo vizio è appunto la “roba” al punto da far coincidere la vita con l’atto stesso di accumulazione materiale che diventa e rimane, fino alla fine, il suo unico obiettivo.

Nel corso della sua vicenda, non si presentano apparenti elementi di contrasto né ostacoli che mettano in difficoltà il protagonista nell’attuazione del suo proposito. Non si configura, l’esperienza di Mazzarò, in senso drammatico.

È tutta concentrata nella conclusione la tragicità della vicenda di Mazzarò, il quale non ha figli, non ha famiglia e, perciò, non ha un fine oltre la propria stessa vita per il quale lottare. La limitatezza della vita sancisce l’insensatezza dell’atto, viepiù estremizzato, dell’accumulazione materiale e contraddice, quindi, l’identità tra l’esistenza del protagonista e il proposito di arricchimento che egli si è posto.

La tragicità è intrinseca al tema della novella, ma non aveva avuto modo di esplicitarsi lungo il corso della narrazione, finché Mazzarò non prende consapevolezza dell’avvicinarsi impellente della fine della sua vita.

La morte imminente indica per Mazzarò l’arrivo del momento in cui deve allontanarsi per sempre dai suoi amati beni, scindendo in maniera irrevocabile quell’identità tra proprietario e proprietà che aveva costituito la metamorfosi antropologica cui il protagonista è andato incontro, trasformandosi nelle cose stesse che possiede. La magia, insomma, si spezza e Mazzarò non può che dar sfogo alla propria follia nell’atto che conclude la novella, quando il protagonista, reso consapevole finalmente del suo destino, esce fuori nel cortile e, in maniera scomposta, barcollando, ammazza a colpi di bastone anatre e tacchini, strillando: «Roba mia, vientene con me!» La trattazione della storia del protagonista della Roba vede per la prima volta Verga riconoscere credito alla possibilità dell’uomo di mutare il proprio destino, cioè di migliorare la propria condizione e il proprio stato sociale ed economico. Di altro tipo sono le vicende narrate in Rosso Malpelo e nei Malavoglia. Il pessimismo nichilistico che impronta il destino umano si sprofonda però ancor di più nel riconoscimento di un’insensatezza e di un’inutilità che connota in maniera irrecuperabile l’esistenza stessa dell’uomo, di cui si rileva, ora, un’ontologica, definitiva degradazione.

10 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “La roba: il miglioramento del proprio destino come definitiva degradazione umana”

  1. È sempre un grande piacere leggere i tuoi testi Davide.
    E, come sempre, si colgono le analogie tra passato e presente, così ben espressi da Angela e da Gaetano.
    Da parte di TV e social vi è una continua esaltazione di un modello di vita che fa dell’accumulo di beni e ricchezza l’unica ragione di vita e molti ne rimangono influenzati, dimenticando cosa sia davvero importante nella vita.
    A furia di vivere per avere si rischia di finire come Mazzarò: sarebbe opportuno ricordarlo più spesso a noi stessi ed anche alle persone alle quali vogliamo bene.

  2. La roba di Giorgio Bongiorno (2023)

    Gli uomini fanno la roba, non la roba gli uomini.
    (Anonimo)

    Oggi sono le nuvole gonfie del mare
    Gli aironi
    I fenicotteri
    Le gru
    I cigni
    Le folaghe e le cicogne
    Le anatre e i cormorani
    I falchi pellegrini
    Fra i fitti canneti del Biviere
    A richiamare i pescatori della piana
    Non ci sono più gli aratri e le mandrie di Mazzarò
    I suoi ulivi affannati
    Tanti da oscurare il sole
    I brevi sonni con lo “schioppo fra le gambe”
    La messe e la vendemmia
    I mulini ricolmi
    La processione del santo con la banda
    Il volo “breve” degli uccelli dietro le zolle lucide
    Il “sibilo dell’assiolo nel bosco”
    La malaria per fortuna se ne è andata via
    Dietro i covoni maturi
    Della piana
    Eppure, camminando
    Per i campi
    Sembra sia la sua ombra
    Appena sfumata
    Disegnata sulle trazzere
    scintillanti nel tramonto dorato
    ai piedi degli Iblei
    brulli e ventosi
    Il suo sdegno verso l’ingiustizia di Dio
    lo scudo di pietra del barone
    E il fischio solenne del pastore
    Nelle gole fra i capperi arditi e pendenti
    I cardi esili torri dei prati
    Sterminati e brulli
    Dietro la “cannedda” di S.Francesco
    A cercare lo sguardo stupito
    Del viandante
    Al respiro dello scirocco profumato di salvia
    Fra i colori aspri
    del mirto e delle euforbie
    Sembra di sentire ancora lui
    A gracidare come un rospo
    Fra la neve gialla e polverosa
    Del deserto
    A strillare ai mezzadri
    Nel cortile di casa
    Inferocito di follia
    Grondante di sudore e
    Con il fiato in gola e
    Con la febbre nel cuore
    A rincorrere
    Il fantasma infuocato e sfuggente
    Della sua “roba”

    ***
    https://www.youtube.com/watch?v=cZghVTSEduU

    1. E se è vero che sono gli uomini a fare la roba e non viceversa, tu, Giorgio, hai dato vita a un Mazzarò che si percepisce ancora nelle cose della natura. In quella natura quell’omuncolo ha creduto di potersi identificare, mentre era in vita. La rimembranza ha il potere di riecheggiare a lungo le sensazioni di quei momenti dell’esistenza, “la malaria per fortuna se ne è andata via”, che però si sono conclusi, come si è conclusa la vita di quel piccolo insignificante protagonista. La tua poesia lo eterna. Ma non è più lui. Questa volta lo hai pienamente trasformato in Natura. Hai creato il miracolo di dargli il fascino della Sicilia, a Mazzarò. Grazie per questo tuo nuovo capolavoro, Giorgio.

  3. Analisi molto chiara, come ci ha abituato Davide con la sua non comune competenza letteraria, che ci fa capire quanto sia attuale l’insegnamento che possiamo trarre da questo racconto, anzi forse ancora più sconfortante in questi tristi tempi che stiamo vivendo: non solo la disperazione di un uomo che ha vissuto, forse sarebbe meglio dire non ha vissuto, solo per accumulare beni materiali sconoscendo che la vera ricchezza è quella della conoscenza e della crescita interiore; ancor più nel nostro tempo dove tutti i valori cristiani e naturali, valori talmente grandi che appunto li consideriamo non negoziabili, a partire dalla vita e del senso della vita, sono accantonati all’insegna di un vissuto avaloriale, relativistico e materialistico che produce ancora più insoddisfazione e disperazione persino superiore a quella di Mazzarò. Le ideologie nichiliste e anti-cristiane sono oggi al servizio della finanza speculativa che sta portando l’uomo al transumanesimo.

    1. Grazie Gaetano per la tua attenta osservazione. È davvero sconvolgente rilevare quanto lucida fosse già l’ottica e la valutazione prospettica del Verga. La disumanizzazione in atto nel personaggio di Mazzarò che si identifica, in questa fiaba moderna, con i terreni di cui è proprietario, è senz’altro prodromica dei tempi attuali. Il nostro Verga ci fornisce davvero tanto materiale su cui meditare e da approfondire.

  4. Nella novella “la roba” Mazaro’ rappresenta la disperazione di tutta una vita tesa in modo spasmodico all’accumulo di ricchezza fine a sé stesso. Se lo rapportiamo all’oggi non è cambiato molto. La finanza internazionale ha fatto della ricchezza una religione, a costo di sacrificare l’umanità di chi la gestisce e la vita di chi la subisce. Il possesso è la morale di persone normali, senza i cui beni materiali, si ritengono meno degni di chi invece esibisce tali beni. Il bene vero, la propria anima, la propria intelligenza, cultura, capacità di dare e ricevere amore, la coscienza del trascorrere il proprio tempo, e l’accettazione della fine, viene sottovalutato o addirittura accantonato. Questo modo di pensare è oggi forzato dai media, dal cinema, dalla pubblicità onnipresente. Per fortuna spero si tratti di una piccola parte delle persone.

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