DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Aspetti della poesia nel Secondo Dopoguerra. Mario Luzi: apertura al reale e sofferta inconciliabilità”

Dopo la Seconda Guerra Mondiale si registra, in Italia, un orientamento in controtendenza rispetto al tradizionale carattere lirico e soggettivistico della poesia. Si afferma la propensione ad accogliere, nella scrittura in versi, il bisogno di narratività.

Benché soluzioni poetiche tendenti al narrare siano ravvisabili già in poeti novecenteschi, come Pascoli in Digitale purpurea per esempio, o come Guido Gozzano, la poesia (e anche la prosa), dalla fine dell’Ottocento e per mezzo secolo, è poco comunicativa, chiusa nel solipsismo intimistico di letterati incapaci di parlare di contenuti che incontrino le richieste della collettività.

Nel Secondo Dopoguerra si rileva, invece, un bisogno rinnovato di apertura nei confronti della realtà. La poesia accoglie la prosa e la versificazione perde i connotati tipici della liricità per ampliarsi verso forme non codificate, includendo soluzioni nuove. La poesia viene incontro alla necessità di guardare al mondo nell’ottica esistenziale dell’uomo occidentale che vive nell’epoca che va dal superamento del dramma epocale della Seconda Guerra Mondiale alla globalizzazione.

Per narrare, la poesia deve tener conto della diversità dei punti di vista, deve saper distinguere le varie prospettive attraverso le quali presentare l’ambiente in maniera da darne un inquadramento completo e tridimensionale.

L’apertura al reale comporta anche una consapevole rinuncia al sublime, accordandosi alla scelta di includere in poesia contenuti umili e bassi. L’accoglimento di un nuovo proposito poetico, per esempio, è alla base della scelta operata da Montale di intitolare Satura il suo ultimo libro del 1971, proprio a testimonianza dell’eterogeneità e della molteplicità degli spunti contenutistici, ispirati dal reale e dalla quotidianità.

Il che conferisce alla versificazione una dimensione polifonica, attraverso l’incontro con una pluralità di voci che dialogano all’interno di uno sviluppo che richiede continuità e collegamenti, piuttosto che giustapposizioni e spezzature.

Mario Luzi, di cui peraltro si riconosce il merito di essere stato l’artista più rappresentativo e convinto dell’ermetismo fiorentino negli anni Trenta, è autore di poesie che si caratterizzano per una forte componente sperimentale, specie nella raccolta Nel magma del 1963.

In questa raccolta, ritenuta di valore esemplare per i cambiamenti cui è andata incontro la storia italiana nel corso del Novecento, il poeta propende per un atteggiamento apparentemente inclusivo, riconoscendo dignità poetica a una realtà altrimenti prosaica tipica della modernità.

In realtà, Luzi non accoglie in maniera scriteriata contenuti che richiamino la nuova realtà cittadina e il boom economico di quegli anni, quasi sostenendone la sottostante ideologia progressista in alternativa rispetto alle istanze soggettivistiche istituzionalmente proprie della poesia.

L’elemento di più significativa novità è rappresentato, senz’altro, dalla lingua e dallo stile, che abbandona definitivamente il debito nei riguardi della tradizione primo-novecentesca di matrice simbolista e del suo carattere frammentario e figurativo. Le strofe si presentano ampie e l’articolazione del contenuto fa coincidere la versificazione con lo sviluppo diegetico di una situazione, in cui l’«io» si mette in relazione dialogica con gli altri.

Il proposito è quello di operare una mimesi del parlato, evidenziando però nella figura dell’altro, perlopiù personaggi femminili, una dimensione alternativa, che si sovrappone all’io lirico e rispetto alla quale l’obiettivo è quello di individuare una via di comunicazione e di accordo.

La raccolta Nel magma si apre con il componimento Presso il Bisenzio, nel quale l’io narrante, in un contesto ambientale che si presenta caratterizzato da un paesaggio nebbioso e con scarsa visibilità, incontra alcune figure umane pigre e indolenti, con due delle quali instaura un contatto comunicativo e un breve scambio dialogico. Vi si evidenzia una sostanziale difficoltà di capirsi e di trovare un punto di incontro nella diversità degli intenti e dei propositi suggeriti. Uno di loro, in particolare, il più giovane, accostatosi al protagonista gli si rivolge dicendogli:

«O Mario […] Mentre pensi

e accordi le sfere d’orologio della mente

sul moto dei pianeti per un presente eterno

che non è il nostro, che non è qui né ora,

volgiti e guarda il mondo come è divenuto,

poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,

non la profondità, né l’ardimento,

ma la ripetizione di parole,

la mimesi senza perché né come

dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine

morsa dalla tarantola della vita, e basta. […]»

Il giovane sostiene che la poesia, con il suo puntare alla profondità, non viene in aiuto ai bisogni di una società che allo scrittore richiede mimesi e ripetizione, superficialità senza coscienza né consapevolezza. Il reale che la poesia suggerisce è invece quello di un “presente eterno” in cui la nuova gioventù non si riconosce.

Dopo aver ascoltato le parole rivoltegli, Mario risponde laconico: «Lavoro anche per voi, per amor vostro». E più avanti aggiunge:

«È triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso tempo e luogo

e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,

ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte».

Ciò che sceglie di fare il poeta è, cioè, di accettare una sorte che dà dolore. Egli rinuncia, sì, alla condizione elitaria tradizionalmente riconosciuta al poeta in quanto vate, ed entra nel “magma della Storia”. Ma il suo atteggiamento non è quello della sconfitta, bensì del sacrificio.

La riconciliazione con gli altri si rivela, alfine, impossibile se non si riconosce alla poesia il ruolo che le è proprio. Essa non può piegarsi alle richieste di un mondo che, pur se accettato nei suoi contorni, la poesia deve cercare di penetrare e forse cambiare. Ciò che la poesia vede non è quel reale che tutti vediamo e ciò che essa è in grado di comunicare non è detto che sia subito facilmente comprensibile e delimitabile in un concetto.

Il poeta si rammarica e sembra quasi scusarsi di questa disparità e di questa separazione. Ne accoglie la condizione di dolore e di sofferta incomunicabilità e lo fa non per opposizione o per ostilità ma proprio come atto d’amore. Se la poesia, prima, era “altro” per atteggiamento letterario, adesso mantiene la sua alterità come via sofferta di avvicinamento all’esistenza.

3 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Aspetti della poesia nel Secondo Dopoguerra. Mario Luzi: apertura al reale e sofferta inconciliabilità”

  1. Caro Davide,
    questa disparità e separazione che tu ricordi e di cui Luzi pare rammaricarsi , questo sacrificio indotto in effetti rivela una certa filosofica distanza (quasi incolmabile) in quel dialogo che tu attribuisci agli obiettivi fondamentali di Luzi rispetto alle aspettative del fruitore del suo messaggio. Io non voglio azzardare confronti e paragoni con grandi personaggi e autori di questo calibro ma vorrei chiederti come tu leggi e cosa tu leggi nelle e dalle mie improvvisate riflessioni. Il principale scopo del mio messaggio è quello di trascinare altri a un comune sentire nei confronti di una evidenza naturale ( da me accompagnata da immagini , fotografie, opere d’arte ecc.) di un sentimento da me provato e portarli con me, attraverso le mie parole, sul sentiero della speranza in tutte le accezioni (anche le più rischiose) di percorso dello stesso. Una specie di coinvolgimento oneroso , dove l’onere non è necessariamente il sacrificio doloroso ma “solo” una sorta di condivisione, uno stimolo ad ulteriori riflessioni. Io in particolare “pago la mia parte di debito” e vorrei che tu (fruitore del mio richiamo) mi affiancassi e mi dessi retta almeno per una piccola parte del tuo percorso. Non intendo suscitare angoscia o dolore ma solo desidero animare la volontà di partecipazione alla gioia della speranza o allo sconforto di fronte all’ineluttabilità di determinate istanze della nostra vita).
    Mi rivolgo a te perché ho imparato a leggere e conoscere le tue analisi , di cui apprezzo moltissimo gli approfondimenti letterari e non solo quelli, quindi sarei interessato ad un tuo giudizio sul mio modo di intendere il senso del messaggio poetico e ad una tua diagnosi critica i cui accenti mi piacerebbe poter pubblicare nel mio prossimo libro “Sciaveri di tregua”. Molte delle riflessioni oggetto della pubblicazione sono quelle dei post giornalieri pubblicati sul sito della Comunità. Il primo ciclo di questa raccolta è stato introdotto da una mia percezione degli obiettivi della pubblicazione che ho ripetuto ogni giorno e che quindi potrai trovare in archivio. Grazie ovviamente se lo potrai fare.
    Un abbraccio

    1. Caro Giorgio, scusandomi per l’imperdonabile ritardo, formulo brevissimamente un abbozzo di commento che dovrà necessariamente essere approfondito. Quella che ti proponi di fare nei tuoi scritti, a mio modo di intenderla, è ĺ’operazione dignitosissima a cui anche Luzi ha l’onere di provare ad adempiere quando dice di non potersi appiattire nell’ “hic et nunc” della nuova attualità. L’atto di generosità con cui proponi di condividere le tue suggestioni è, proprio per il tipo di condivisione a cui aspiri e che chiedi, un richiamo a spiriti eletti. Nella democraticità del tuo approccio devi, anche tu come Luzi, riconoscere (e forse esserne fiero) l’aristocraticità delle cose che ci regali. Ha ragione Luzi: bisogna accettare di non essere per tutti. La tua sintassi è semplice: anzi a volte essenziale, paratattica. Si sarebbe tentati di dire anche che gli oggetti del tuo sentire siano comuni: naturali. Ma fossero anche solo suggestioni quelle che tenti di suscitare, sarebbero, oggi, materia umana comunque non comune. Continuiamo a disobbedire anche in tal senso, Giorgio. È durissima, per me forse ancor più che per te, ma dobbiamo continuare a credere che la profondità delle cose ci restituirà quello che la superficie ci ha fatto smarrire.

      1. Apprezzo moltissimo il tuo commento e questa è un’altra delle mie confessioni:
        Radici profonde

        Ho percorso oggi
        Il sentiero che porta alla sorgente
        Della parola
        Ho sentito il desiderio di aprire
        Lo scrigno del linguaggio
        Di percorrere
        Le radici dei primordi
        Forgiate nella fucina del tempo
        Momenti di rara efficacia
        Miracolo della lingua
        Quasi una sublime congiunzione di
        Gridi che vengono da lontano
        Attraverso il percorso di secoli
        Canti di antiche nenie
        Lamenti sillabati nella foresta
        Nella primitiva ingenuità
        Nella danza del contatto
        Preghiere innalzate al cospetto del cielo
        Invocazioni divine
        Mi sono trovato nel mezzo dell’oceano
        Circondato da flutti giganteschi
        Come dovessi balbettare
        Per la prima volta
        Qualche frase sconnessa
        Ci siamo allontanati dalle origini
        Parliamo in punta di piedi
        Nell’amara certezza
        Di perdere il sottile filo della storia
        Il sovrano possesso della terra
        Ignoriamo
        La sua generosa fertilità
        Ci affidiamo sempre di più
        Al gergo impersonale di questo secolo
        Sempre più elettronico
        Sempre meno umano
        Sempre più distante dalla vita
        Valori di un tempo
        Inondati di acronimi e neologismi
        Ci lasciamo trascinare via dalle radici
        Da abusi sconnessi di roboanti assonanze
        E con le nostre parole vuote
        Gonfiamo a dismisura le espressioni del corpo
        E abbandoniamo troppo spesso
        Il sublime sentiero della meditazione
        Quello
        Dei significati più profondi
        Quello che viene dalla storia
        Quello che profuma di tradizione
        Quello dell’anima
        ***

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