L’Arabo errante è il titolo di un reportage di Alberto Moravia pubblicato il 7 marzo 1971 sulla rivista L’Espresso. Il testo redatto da Moravia è il resoconto del secondo simposio internazionale sulla questione palestinese tenutosi in Kuwait, a cui egli ha personalmente partecipato. Il proposito che lo scrittore espressamente formula nell’incipit dell’articolo è quello di fornire una risposta al quesito su chi siano i palestinesi.
Moravia dà un’indicazione fattualmente ineccepibile e storicamente determinata, dicendo che i «palestinesi sono i filistei o cananei di cui parla la Bibbia» e che «essi si trovano in Palestina sin dal 12° secolo prima di Cristo».
I palestinesi vengono da lui riconosciuti come un popolo semita e la Palestina, cioè l’area geografica che costituisce il territorio sul quale questo popolo per secoli si è stanziato, viene da lui indicata come una zona che rappresenta il punto d’incontro di tutte e tre le grandi religioni monoteiste: quella giudaica, quella cristiana e quella musulmana.
Il simposio viene presentato da Moravia come un evento nel quale si è sottolineata la tragicità dell’esperienza che il popolo palestinese sin dagli albori ha vissuto. Gli eventi catastrofici ai quali la Palestina ha fatto da teatro, hanno avuto inizio a partire dal 132 dopo Cristo. In quella data i romani deportarono gli ebrei al di fuori della Palestina e vietarono loro definitivamente di risiedere nella città di Gerusalemme.
Da quel momento in poi la diaspora degli ebrei nel mondo, che già era in atto da tempo, divenne obbligatoria e da lì in avanti gli ebrei cominciarono ad avere un atteggiamento di “nostalgia messianica” che si accese, in particolare, dopo la Rivoluzione francese.
Le costanti di questa condizione di tragicità sono state il rifiuto da parte degli ebrei di accettare di doversi disperdere in tutto il mondo e la loro volontà di tornare in Palestina.
La Rivoluzione francese ha rappresentato l’evento storico che ha determinato l’assunzione della classe della borghesia allo status di potere politico ufficialmente riconosciuto. La visione del mondo della borghesia è stata accettata in tutto l’Occidente e se ne sono acquisiti gli interessi e le prospettive in un’ottica laica che ha definito la nozione occidentale e moderna di nazione.
Il concetto laico tipicamente ottocentesco di nazione maturato in tutto l’Occidente viene assunto nell’ambito della cultura ebraica secondo un’interpretazione anche religiosa. Quella di fondare una nazione ebraica in cui la prospettiva nazionalista e confessionale coincidano, si rivela una “necessità” che «si impone [storicamente] dapprima con il pogrom dell’Europa orientale e poi con le stragi hitleriane».
Questa necessità degli ebrei di tornare in Palestina, dopo aver aspettato per venti secoli, con l’idea di crearvi uno stato nel quale i confini fisici coincidessero con i confini religiosi, etnici e linguistici è un’idea assolutamente legittima e impossibile da negare o da svilire.
È proprio l’idea di una nazione ebraica costruita sul concetto ottocentesco e occidentale di nazione a rappresentare il motivo originario che spiega i drammatici eventi verificatisi in Medio Oriente a partire dalla metà dello scorso secolo. Gli ebrei sono i responsabili della realizzazione di uno stato occidentale all’interno di una realtà politica e geografica che nel frattempo è totalmente cambiata.
C’è un altro popolo che adesso si trova stanziato nelle zone geografiche dove prima c’erano gli originari palestinesi sionisti. Questo popolo lo si definisce “palestinese” ma di fatto è di origine araba. Gli ebrei non hanno niente contro questi palestinesi. Non esistono ragioni che diano misura alcuna di presunte volontà imperialistiche o di assoggettamento da parte degli ebrei nei loro riguardi.
Moravia si limita a rilevare come, nonostante «tutta la buona volontà del mondo, [i palestinesi] non possono trovare posto nella nation, come è stata concepita dai sionisti e […] dalla Rivoluzione francese».
Negli anni intercorsi tra il 1947 e il 1967 questo nuovo popolo “palestinese” è stato allora costretto ad abbandonare in massa la Palestina. Allontanatosi da Israele, questo popolo va a stabilirsi negli stati limitrofi della Giordania, della Siria e del Libano, convinto della possibilità di riuscire in futuro a ritornare in “patria”.
All’interno delle realtà territoriali limitrofe rispetto allo stato di Israele, le condizioni di vita in cui il popolo dei “palestinesi” vive sono quelle di gente profuga, che si trova accampata in tendopoli, perlopiù privata di diritti e di riconoscimenti civili.
Le persone che compongono queste carovane di gente sono, generalmente, ex contadini che si adattano a svolgere i lavori più umili pur di procacciarsi da vivere. Così come prima gli israeliani, i “palestinesi” sono un popolo costretto a vivere da sradicato.
Considerando le loro origini etniche di popolazione araba, risulta difficilmente spiegabile la loro difficoltà di integrarsi all’interno degli stessi paesi arabi (perlopiù spopolati), dove essi invece vivono da esuli e da fuggiaschi.
Moravia li definisce un “popolo malato”: la tesi di Israele, che lo scrittore italiano sembra pienamente condividere, è quella secondo la quale il destino dei palestinesi non abbia pertinenza con la situazione politica di Israele in sé, ma che sia di competenza degli stati della Lega araba. I palestinesi, ciò nonostante, sono un popolo che non riesce ad essere riassorbito all’interno di quegli stati arabi dove i palestinesi si insediano da rifugiati.
Una siffatta incoerenza appare ancor più rimarchevole se la si mette in relazione con un fattore ideologico fondamentale nella cultura araba: si tratta dell’atavica contrapposizione tra arabi ed ebrei che rappresenta un punto fermo del credo islamico e del Corano. Tale rivalità tra queste due contrapposte civiltà è la motivazione intrinseca che fa da agente propulsore del “nazionalismo panarabo”.
Da questo punto di vista la causa palestinese coincide con quella araba. Tutti gli stati arabi convergono nella difesa di un interesse comune che si identifica nella lotta contro Israele. L’attività panaraba trova come suo momento culminante quello in cui si manifesta l’odio viscerale nei confronti degli ebrei e, quindi, dello stato di Israele di cui si nega la legittimità all’esistenza. Il sostrato di fondo è quello del fanatismo religioso che interessa pressoché tutti gli stati arabi, dal Marocco al Golfo Persico.
L’odio antiebraico si rivolge nei confronti di tutto il mondo ebraico, senza distinzioni né differenze, e si formula in modo da fondersi con motivi religiosi tradizionali e orientamenti tipici dell’antisemitismo europeo propri dei decenni precedenti.
La modalità attraverso cui questa fase terribile del conflitto si articola è quella di una guerra che coinvolge diverse forze in gioco, dalla politica di Nasser all’intervento nello Yemen, all’alleanza con l’URSS, e che si conclude disastrosamente con la sconfitta degli arabi avvenuta nel 1967.
Finita la guerra non finisce però il conflitto che, anzi, si alimenta ancor più, articolandosi in una seconda fase ancor più grave e deleteria. Questa seconda fase viene definita da Moravia “fase palestinese”, proprio «perché [viene] promossa così, nell’azione come nel pensiero, direttamente dal popolo palestinese».
Se esiste una causa sostanziale che accomuna tutto il mondo di credo islamico e che coinvolge anche la situazione palestinese a livello di istanze di base, nella seconda fase del conflitto, invece, escono fuori contraddizioni interne allo stesso mondo arabo e tensioni non sciolte.
Siria, Giordania e Libano, benché ostili ad Israele in quanto paesi arabi e quindi tali da considerare inevitabile la guerra con quest’avversario, tuttavia non desiderano la normalizzazione civile dei profughi palestinesi.
L’uso potenziale che di questo popolo è possibile fare strumentalizzandone la condizione di sradicati e di derelitti, rappresenta un’irrinunciabile prospettiva da seguire. Gli stati arabi dimostrano l’intenzione di volersi servire della miseria dei palestinesi come arma di ricatto contro Israele stesso.
La seconda e più terribile fase delle ostilità si caratterizza in maniera rivoluzionaria ed è basata su guerriglie armate di tipo terroristico.
Gli atti di guerriglia, d’altro canto, rappresentano in sé una scelta estremamente rischiosa. Si rileva la possibilità che la prospettiva si allarghi fino ad abbracciare un movimento rivoluzionario ancora più ampio e di certo pericoloso.
Si paventa un terribile coinvolgimento dei rapporti di collaborazione politica, militare e finanziaria con l’Occidente stesso, soprattutto con gli Stati Uniti, che diversi stati arabi già intrattengono.
È davvero emblematico il fatto che a distanza di più di cinquant’anni, alcune dinamiche del conflitto arabo-israeliano siano ancora oggi perfettamente sovrapponibili alla situazione allora in corso. Se ne ricava, ancora una volta, la considerazione secondo la quale la storia non ci ha insegnato niente.
Il mondo arabo ha da sempre avuto nei confronti del popolo palestinese un atteggiamento caratterizzato da una deleteria duplicità. La situazione del popolo palestinese è quella di essere un popolo arabo ma «profugo e straniero in terra araba», e per gli altri popoli di cultura e di lingua arabi ha rappresentato un mezzo e uno strumento di lotta piuttosto che un fine o un obiettivo politico realmente condiviso.
Quella della Palestina è una situazione le cui costanti si confermano ripetutamente, aggravandosi per via dell’emergere di eventi sottostanti caratterizzati da componenti più o meno rilevanti di opportunismo politico e finanziario. Si determina la costante precarietà di trovarsi sull’orlo di un terzo conflitto mondiale.
Nel 1971 responsabile di una politica controversa era il re Hussein di Giordania, appoggiato dagli Stati Uniti e protagonista di un’azione di contrasto all’attività dei guerriglieri palestinesi. Egli si mostrava apparentemente votato a fare opposizione al gruppo terroristico palestinese di Al-Fatah, contrastando i crimini perpetrati dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina.
In realtà, come sostiene Moravia, l’insieme complicatissimo delle scelte attuate nelle relazioni tra palestinesi e stati arabi, comportano calcoli e strategie che, alla fine, puntano a un unico e semplice progetto politico.
Si tratta cioè di intensificare le azioni di guerriglia armata e violenta nei confronti di Israele, allo scopo paradossalmente dichiarato di costringerlo alla tolleranza. Il proposito in realtà perseguito e sottaciuto a bella posta è, ovviamente, quello di distruggere Israele in maniera totale e definitiva.
Così avveniva nel 1971: tali paiono ancora oggi le intenzioni dichiarate di liberare e di rendere autonomo lo stato palestinese che, invero, non corrispondono a un progetto vero. Nessuno vuole realmente realizzare l’indipendenza di uno stato palestinese.
La violenza e le armi, «di per sé intolleranti», non possono costringere a un’apertura e alla liberalità. Così si esprime Moravia nel 1971 e anche oggi è facile accorgersi di come la violenza sia il mezzo e, di conseguenza, il fine unico di ogni atto terroristico.
Questo tuo bellissimo scritto, caro Davide, insieme al testo di Moravia, dovrebbe essere letto, spiegato e approfondito nelle scuole.
Unica condizione: chi lo legge e lo spiega dovrà essere libero da certi retaggi ideologici che ammorbano la scuola italiana e ne causano il cancro.
I ragazzi, se avessero la fortuna di beneficiare di insegnanti come te, sarebbero davvero migliori.
Grazie professor Ficarra!!!!
Grazie del lusinghiero commento, Andreina. Sono d’accordo con te: è vergognosa la mancanza di onestà intellettuale che impera nelle scuole italiane.