ilpost.it, 26 aprile 2024 – Alle 4 di giovedì 25 aprile 2024 piazza del Duomo a Milano era molto, molto più piena del 14 giugno 2023 per i funerali di Silvio Berlusconi. Almeno altre tre/quattro piazze della stessa dimensione avrebbero potuto essere riempite dalle persone che in quel momento ancora sfilavano lungo via Santa Margherita, piazza della Scala, via Case Rotte, via Giacomo Matteotti, piazza San Babila e corso di Porta Venezia, o che a due ore dall’inizio del corteo dovevano ancora partire da via Palestro. Quella di ieri è stata una delle manifestazioni più grandi che abbia mai visto a Milano. Rispetto ad altri 25 aprile ho percepito meno memoria e ritualità, ma più voglia di esserci per questioni che riguardano quello che sta succedendo ora, nel presente, in Italia con il governo Meloni e la censura della Rai ad Antonio Scurati, ma anche in Iran, in Ucraina e soprattutto in Israele. Ho respirato più rabbia e meno allegria, e molta distanza dalle piazze della sinistra a cui ero abituato.
I soliti c’erano tutti: quelli di Lotta Comunista, di Che fare, gli Umanisti, gli operai della CGIL e i volontari di Emergency, le famiglie Arcobaleno con i loro bambini e bambine, le bande degli ottoni, gli insegnanti, gli studenti, i borghesi del centro, persone senza denti e altre elegantissime, in cachemire e cappotti in lana antica del Casentino, ragazzi e ragazze con il tricolore al collo come i partigiani nelle foto della Liberazione, una signora con un cappotto celeste e il basco bordeaux che sembrava appena uscita dalla Resistenza francese. Ma accanto, più numerosi, c’erano altri gruppi e altre sigle, che spostavano altrove il senso della manifestazione: in testa al corteo, difesi dal cordone rosso dei City Angels, i ragazzi dell’organizzazione giovanile ebraica Hashomer hanno sfilato in blu cantando slogan del ‘68, Bella ciao e Contessa di Paolo Pietrangeli, dietro venivano la Brigata ebraica, le signore di Bring them home now e lo striscione «due popoli due Stati», le prime pagine del Foglio e i fan di Emma Bonino, le bandiere di Azione e quelle gialle e azzurre dell’Ucraina, qualcuna della Nato, degli Usa e del Regno Unito, e quelle sparse palestinesi sventolate da chi, invece di stare in uno dei vari numerosissimi gruppi pro Palestina presenti, ha deciso di protestare contro Israele rimanendo ai lati del corteo: ragazzi mediorientali con la maglia di Pogba o la tuta firmata, signore bene con la kefiah, un tizio con un gilet verde militare che teneva al guinzaglio un grosso cane nero ringhioso con un fazzoletto rosso al collo che abbaiava contro quelli con la Stella di Davide. Quando dal palco, prima di condannare Netanyahu e Israele per le decine di migliaia di morti di Gaza, l’oratore ha nominato il 7 ottobre di Hamas è stato sommerso dai fischi. Quasi sotto il palco in piazza Duomo, oltre a un fronte di bandiere nere bianche verdi e rosse della Palestina, c’era il gazebo di Sinistra Classe Rivoluzione. Tendenza Marxista Internazionale che hanno slogan come «Intifada fino alla vittoria» e «Palestina libera Palestina rossa». Più indietro, in via Matteotti, quelli di Patria socialista avanzavano dietro uno striscione con la scritta «Dal Donbass alla Palestina liberazione dalla Nato assassina» davanti a un gruppo organizzato di filoputiniani con stendardi e bandiere bianche rosse e blu che gridavano slogan come «Zelensky boia» e «onore ai partigiani russi».
C’erano anche le donne iraniane, poche (gridavano «donna, vita, libertà» «Jin, Jîyan, Azadî» senza troppo essere ascoltate), gruppo di ecuadoregni ed etiopi. Ogni crisi in corso oggi nel mondo sembrava essere rappresentata, tranne due: il tema dell’uguaglianza sociale e del cambiamento climatico erano quasi totalmente scomparsi. Il primo limitato agli appelli sulla sicurezza sul lavoro lanciati dal palco da qualche sindacalista; il secondo rappresentato dai ragazzi e dalle ragazze dei Fridays For Future pochi e sparuti, del tutto sopraffatti per quantità e determinazione dalle migliaia e migliaia di bandiere palestinesi, unico vero collante simbolico e identitario della protesta giovanile. Le sventolavano gli studenti dei licei milanesi del centro e quelli dei centri sociali, gli anarchici e quelli di Rifondazione comunista, i giovani che ballavano dietro al camion dell’Arci e quelli del Partito comunista di Marco Rizzo, ormai compiutamente nazionalista, oltre che naturalmente le migliaia di giovani islamici con la barba lunga o l’hijab, totalmente assorbiti e complementari alla protesta italiana.
Non sarebbe giusto interpretare la composizione della piazza come una rappresentazione statisticamente fedele dell’attuale stato dell’opposizione in Italia. Gli assenti sono sempre molti, molti di più dei presenti. È probabile, quindi, che i rapporti numerici e di forza siano diversi e molto più equilibrati. Ieri però mi è parsa lampante la compresenza di posizioni politiche e ideologiche irriducibili tra loro, l’apparizione all’interno dello stesso corteo di distanze siderali, ancora più grandi di quelle che dividono i presenti dall’attuale governo. Il gruppuscolismo è una costante della sinistra, non soltanto in Italia: la “strategia del virus” con cui Corrado Guzzanti descriveva l’attitudine pulviscolare di Fausto Bertinotti è il grado zero di una secolare tendenza alla scissione e allo scontro che ha portato morte e violenza all’interno dello stesso campo. Quello che ieri, però, mi è sembrato di vedere è la dissoluzione stessa di quel “campo”.
Le differenze erano grandi anche ai tempi del berlusconismo, ma allora – così almeno mi pare – l’opposizione a Berlusconi riusciva ancora a delimitare un insieme politico e un senso di appartenenza a una comunità e a una storia. Oggi l’opposizione al governo di Giorgia Meloni non basta più a contenere e abbozzare un fronte comune. Il 25 aprile è ancora in grado di attrarre milioni di persone che probabilmente sarebbero maggioranza nel paese, se stessero insieme. Il problema è che oggi non sembra esserci più niente a tenerle unite e a poterle convincere a votare nello stesso modo. Il contenitore estetico è ancora potente, ma è non più ideologico né politico. Non esistono leader, “valori”, “parole-guida” comuni in grado di canalizzare intorno a sé la voglia di esserci e di rendere il mondo migliore di quello che è. Parole come “sinistra”, “uguaglianza”, “giustizia, “libertà”, “progresso”, “ambiente”, “popolo”, “diritti” sembrano irrilevanti, o almeno non valgono per tutti. L’unica parola che ieri avrebbe messo d’accordo chiunque è “antifascismo”, solo che ha significati opposti: per molti coincide con la democrazia, mentre per molti altri la democrazia è l’inganno con cui i paesi occidentali giustificano e continuano a perpetrare il proprio dominio sul mondo.
Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic.
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