Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65), in Questiones naturales (VII, 25,3-6) scrive che la mancanza di certezza su questo particolare problema non deve intaccare la fiducia nel progresso scientifico: verrà un giorno in cui le verità ora nascoste saranno svelate, grazie alla ricerca condotta da più generazioni. Il tempo breve della vita umana, sembra riconoscere il filosofo, non è sufficiente per la scienza, che richiede un impegno costante attraverso i secoli. Traduzione di Rossana Mugellesi.
«Perché dunque ci meravigliamo che le comete, uno spettacolo dell’universo così raro, non siano ancora comprese in leggi sicure né si conosca l’origine e la fine di quei corpi celesti, il cui ritorno avviene dopo così lunghi intervalli di tempo? Non sono ancora passati mille e cinquecento anni da che la Grecia “contò le stelle e diede loro un nome”; ancor oggi molti sono i popoli che conoscono il cielo solo per il suo aspetto, che ancora non sanno perché la luna si eclissi, perché il sole si oscuri: questi fenomeni anche presso di noi solo da poco sono stati messi in chiaro attraverso lo studio. Verrà un giorno in cui il passare del tempo e l’esplorazione assidua dei secoli porterà alla luce quello che ancora ci sfugge. Una sola generazione non basta all’indagine di fenomeni così complessi, anche se si dedicasse esclusivamente al cielo: che dire poi del fatto che questi così pochi anni non li ripartiamo in modo equo fra lo studio e i vizi? Perciò questi fenomeni saranno spiegati attraverso un lungo succedersi di generazioni. Verrà un giorno in cui i nostri posteri si meraviglieranno che noi ignorassimo cose tanto evidenti. Di questi cinque pianeti che si manifestano a noi e che, presentandosi ora in un luogo ora in un altro, stimolano la nostra attenzione, solo ora cominciamo a sapere quali siano le levate mattutine e serali, quali le soste, quando si spostano in avanti, perché tornino indietro; se Giove nasca o tramonti, o sia retrogrado (infatti questo è il nome che gli hanno dato quando indietreggia) lo abbiamo appreso da pochi anni. S’è trovato chi ci ha detto: “Sbagliate a credere che un pianeta arresti il suo corso o muti direzione. I corpi celesti non possono restare fermi né deviare; avanzano tutti quanti; procedono secondo la spinta iniziale ricevuta, la fine della loro corsa coinciderà con la loro stessa fine. Quest’opera eterna ha movimenti irrevocabili, che, se un giorno si fermassero, quei corpi che ora sono regolati da ritmo ininterrotto e costante, precipiterebbero gli uni sugli altri».
Giovanni Villani (1276 ca – 1348), nella sua Nuova cronica (libro VII, cap. 91), associando la comparsa di questi corpi celesti alla manifestazione di eventi infausti, descrive così le circostanze della morte di papa Urbano IV:
«E come s’apruovi che queste stelle comete significano mutazioni di regni, per gli antichi autori in loro versi, si mostra per Istazio poeta, nel primo suo libro di Tebe, ove disse: “Bella quibus populis que mutat regni comete”. E Lucano nel primo suo libro disse: “Sideris et terris mutante regna comete” . Ma questa intra l’altre significazioni fu evidente e aperta, che Come la detta stella apparve, papa Urbano amalò d’infermità, e la notte che la detta cometa venne meno si passò il detto papa di questa vita nella città di Perugia, e là fu soppellito».
Anonimo romano, in un Passo della Cronica (cap. 8), dopo aver ricordato l’apparizione di una cometa nell’anno 1337, accenna alla concezione aristotelica, testimoniando che nell’epoca medioevale essa dominava incontrastata:
«Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io’, ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate.
Dice Aristotile, nella Metaora, ca questa non è verace stella; anche ène una fatta nella sovrana parte de l’airo, e faose de materia umida e calla, la quale salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao. Anche dice ca questa mai non appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li principi della terra, e commozioni de reami e morte e caduta de potienti».
Torquato Tasso (1544 – 1595) cita la cometa con il senso di orrida visione che pervade questi versi (Gerusalemme liberata, VII, 52-53):
Qual con le chiome sanguinose orrende
splender cometa suol per l’aria adusta,
che i regni muta e i feri morbi adduce,
a i purpurei tiranni infausta luce:
tal ne l’arme ei fiammeggia, e bieche e torte
volge le luci ebre di sangue e d’ira.
Vincenzo Monti (1754 – 1828) accoglie l’immagine delle comete tradizionale (Bassvilliana, I, 61-69):
E nel levarsi a volo ecco di Piero
sull’altissimo tempio alla lor vista
un cherubino minaccioso e fiero
un di quei sette che in argentea lista
mirò fra i sette candelabri ardenti
il rapito di Patmo evangelista.
Rote di fiamme gli occhi rilucenti
e cometa che morbi e sangue adduce
parean le chiome abbandonate ai venti.
Alessandro Manzoni (1785 – 1873), nel capitolo XXXII de I promessi sposi, denota una presa di posizione razionale nei confronti delle superstizioni:
«Vedevano, la più parte di loro [i “dotti”], l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove, “inclinando”, scrive il Tadino, “la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur”. Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un’altra cometa, apparsa nel giugno dell’anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell’unzioni. Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza».
Giacomo Leopardi (1798 – 1837) sulle comete critica sarcasticamente la concezione convenzionale (Zibaldone di pensieri, 15 settembre 1823):
«Ma le comete che cosa hanno di spaventevole per sé, più ch’altro corpo celeste, o che la via lattea ec.? E volendole pigliare per segni e presagi, perché non di bene? Ma non si troverà nazione dov’elle fossero o sieno stimate annunziare altro che male.»
Giovanni Pascoli (1855 – 1912) Alla cometa di Halley, lirica interamente dedicata a questo corpo celeste, ricordato in occasione del suo penultimo passaggio nel gennaio 1910 (vv.14-17; 23-35):
O tu, ricordi questa terra nera?
Volgono appena otto anni tuoi, da quando
tu lo vedesti, in una cupa sera,
un della Terra. […]
E dagli abissi uscita allor, Cometa,
tu fiammeggiavi lunga all’orizzonte.
Udiva il suon lontano di compieta,
che par che pianga. E lo toccasti in fronte.
Le stelle impallidirono. Non v’era
altro che te nel cupo cielo esangue
che tu sferzavi con la tua criniera.
Tu tra i pianeti e i Soli, eri com’angue
che uccide e passa. A questa nera Terra
dicevi il tristo ribollir del sangue,
l’ombre vaganti, i gridi da sotterra,
tutti gli affanni, tutte le sventure,
tutti i delitti: incendi, stragi, guerra.
Simonetta Ercoli
Foto di copertina: Galileo Galilei 1623, dibattito scientifico in forma epistolare sulla natura delle comete in risposta alla diversa ipotesi proposta dal gesuita Orazio Grassi, pseudonimo Lotario Sarsi.