DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Dalla fine dell’Ottocento all’attualità: “Il collaboratore avventizio” di Svevo, i freelancer e i giornalisti professionisti”

Si colloca nel 1883 la pubblicazione di alcuni articoli di Ettore Schmitz, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Italo Svevo, sul periodico L’inevitabile di Trieste. La lettura di queste prose, redatte dal geniale scrittore friulano in epoca giovanile, può rivelarsi illuminante e stupire per la lucidità con cui egli tratteggia, in piccoli incisivi bozzetti, alcune tipologie umane caratteristiche della sua contemporaneità.

Il collaboratore avventizio, articolo del 23 settembre, descrive gli aspetti comportamentali, le abitudini e gli atteggiamenti tipici di chi, per vivere, svolge il ruolo di giornalista indipendente.

L’obbligo di relazionarsi con testate giornalistiche diverse, alle quali, volta per volta, proporre la propria collaborazione senza un impiego fisso, condiziona lo stile di vita di chi si dedica a quest’attività, costringendolo a compiere frequenti spostamenti fisici e a presentarsi come un “merciaiolo girovago”, che vende la sua attività intellettuale sotto forma di prodotto.

Figura umana presentata come quella di un individuo in evidenti difficoltà economiche, il collaboratore avventizio viene immaginato come un uomo vestito male, con abiti sgualciti e con l’aria stanca di chi, sempre affaccendato, si muove affannosamente alla rincorsa di qualcosa da fare.

Disperato, per nulla affascinante, teso al risparmio su cose finanche essenziali come la dignità di risiedere in un appartamento quantomeno accogliente, il collaboratore avventizio alloggia in una stanzetta ubicata in una zona periferica della città (dove abitare verosimilmente costa meno) e va in giro sempre con dei fogli sotto il braccio.

Se l’apparenza non è il suo punto di forza, a un collaboratore avventizio si riconosce, come pregio migliore, di possedere un’ampia e variegata erudizione, che egli si è costruito per venire incontro all’eterogeneità delle possibili richieste che gli vengano rivolte. Erudizione, non cultura, si badi; ché fatta di nozioni superficiali è la conoscenza di chi sa un po’ di questo, un po’ dell’altro, spaziando tra vari ambiti del sapere senza diventarne mai davvero competente.

Stendere pagine di prosa inconcludente è la specialità di questo tipo di scrittore, in grado di elaborare articoli di basso valore partendo dal nulla e non sapendo pressoché nulla di ciò di cui gli si chiede di occuparsi. Si tratta del modo migliore per compiacere chi gli commissiona il lavoro e anche il lettore, il quale dalla materia trattata viene facilmente irretito e magicamente sedotto.

Se poi si tratta di scrivere per testate giornalistiche di orientamento politico diverso l’una rispetto all’altra, non c’è problema: “il collaboratore avventizio è onnicolore in politica”, egli non ci bada troppo.

Offrire la propria penna alla causa del miglior offerente o apporre la propria firma a sostegno di due o più proposte, benché opposte l’una rispetto alle altre, gli consentirà, magari, di ottenere un leggero guadagno in più e di tirare avanti con una maggiore tranquillità.

Descritta impiegando doti artistiche che fanno pensare al giovane Italo Svevo come a un letterato, più che come a un documentarista professionista, la tipologia sociale del collaboratore avventizio presenta caratteristiche che permettono di inquadrarne la figura sotto la categoria dell’uomo inetto. Colpiscono le sfumature analitiche e i risvolti psicologici abilmente tratteggiati da Svevo che, in un secondo tempo, troveranno maggiore approfondimento in opere narrative strutturate e sistematiche.

Il ruolo che questa categoria lavorativa assume all’interno della società produce echi borghesi che si propagano fino ai giorni nostri. Fatti i giusti paragoni, si ravvisa un immediato possibile confronto tra il collaboratore avventizio e la figura del freelancer, molto in voga nella società di oggi.

Differenza sostanziale pare esserci però nel carattere di volontarietà della scelta di porsi in una condizione di alienazione dal sistema propria dei lavoratori freelancer. Forti di una competenza e di una professionalità che, a loro modo di vedere, gli altri non potrebbero che apprezzare e invidiargli, i freelancer sfrutterebbero le loro peculiari superiori abilità, per richiamare l’interesse e la richiesta di rivolgersi a loro da parte del pubblico, non condizionati dall’obbligo di sottostare ai voleri di un datore di lavoro che ne coordini lo svolgimento delle mansioni.

Sotto a un’ottica di questo tipo, i freelancer apparirebbero come delle figure in grado di uscire da un sistema lavorativo che, sul piano istituzionale, dichiara il suo carattere perverso e uniformante nei confronti delle specificità individuali e svilente verso le capacità dei singoli.

Il non volersi “sistemare”, però, non sempre coincide con la scelta virtuosa di continuare a essere se stessi ad onta di un organismo generale coincidente con una società che assegna ruoli che non corrispondono alla propria identità.

La figura, di cui accenna i contorni Italo Svevo, pare piuttosto quella di un individuo che, piegandosi a ogni forma di compromesso, trova nella precarietà l’unica possibilità di andare avanti, pregiudicando, così, ogni possibilità di migliorarsi e abnegando ogni prospettiva di salvaguardia di un’etica personale coerente.

Al collaboratore avventizio si associa, piuttosto, l’attuale figura dei giornalisti di professione, naturale evoluzione di un tipo umano che, proprio nell’ambito dell’informazione, è protagonista di un impoverimento della dignità del ruolo di chi comunica all’interno della società.

Non più personaggi antisistema ma figure professionali pienamente integrate e conniventi col sistema di potere al quale sottostanno e nei cui riguardi giurano, prezzolati, la loro piena fedeltà.

I giornalisti di oggi sono i collaboratori avventizi della fine dell’Ottocento, prima avviliti dallo spasmodico desiderio di entrarci nel sistema e impediti dalla difficoltà a stabilizzarvisi dentro, oggi figure rappresentanti, facce e voci attraverso cui il sistema, totalmente degeneratosi, si mostra e parla. Dell’inettitudine contemporanea risulta esemplare interprete proprio chi convintamente sostiene il sistema e lo difende.

7 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Dalla fine dell’Ottocento all’attualità: “Il collaboratore avventizio” di Svevo, i freelancer e i giornalisti professionisti”

    1. Caro Davide, anch’io trovo molto bello il tuo articolo su Svevo e molto giusti il tuo giudizio che condivido pienamente.
      Sono molto legato a Svevo di cui ho letto i romanzi e racconti e non ricordo o non ho letto quell’articolo da te citato e commentato. Sono molto legato a Ettore in quanto triestino città che amo ed ho frequentato prima da molto piccolo e poi da militare di sanità da adulto. Trieste mi ha sempre affascinato per la sua particolare collocazione, tra mare e colline carsiche, per la sua insieme chiusa cultura ancora in parte mitteleuropea e orgogliosamente italiana, ancora borghesemente chiusa tra triestini ma aperta verso il mare e i popoli anche i più distanti, che tratta con amicizia e rispetto ma senza cedere all’intimita’ o all’infatuazione. C’era, almeno una volta, chi guardava ad est, all’antico nemico, come chi invece era irredentista ed orgogliosamente italiano, come una società sospesa tra mare e terra e monte e chiusa in appartamenti borghesi in un piccolo mondo antico e moderno e con lo sguardo volto al mare in un orizzonte liquido e misterioso. E i piccoli fatti della vita di ogni giorno assumono a volte eminenza epica. A noi militari le triestine non davano retta. Impossibile fare amicizia ed entrare nel loro giro di amici, nelle loro mire borghesi e possibilmente ricche. I triestini invece ti parlavano, ma mai troppo e intenti a far il loro dovere il più velocemente possibile, per rientrare nei loro giri di amici, di studi o lavoro.
      Eppure capivo Svevo, il clima, la vita piccolo borghese spesso aperta all’universo ma sempre legata con un cordone ombelicale all’essere italiani di confine, con testa e cuore dentro Trieste e l’Italia e un piede fuori oltre ogni confine.
      Quelli che poi Italo /Ettore chiama il collaboratore avventizio, come ben dice Davide è il giornalista d’oggi, che io chiamo pennivendolo, anche senza sarcasmo, colui che scrive di tutto senza sapere di niente, che s’improvvisa saputo, mentre obbedisce solo al padrone editoriale, scrivendo solo quello che costui si aspetta. Insomma una versione letteraria del mestiere più antico del mondo. Mentre il free lance è altra cosa, è colui che ha esperienze sul campo, che ha una sua idea, anche politica, ed una sana coerenza che gli è data da studio, confronto, documentazione completa ed equilibrata, che non transige sui principi ed in quello in cui crede, anche a discapito di denaro e notorietà, spinto da libertà e fede laica nella giustizia e nella verità umana. Il vero giornalista che racconta il mondo com’è e ne aiuta la crescita collettiva, come dovrebbe essere sempre.

      1. Grazie mille Gianni della tua lettura e del tuo apprezzamento. Gli articoli che Svevo scrisse e pubblicò sull’ “Inevitabile” di Trieste sono in totale sei e sono rimasti pressoché sconosciuti. Sono riemersi a seguito di ricerche dopo quasi un secolo dalla loro stesura. Io ne ho presi in considerazione due, in particolare. A breve pubblicherò il mio resoconto anche sul secondo di questi due. Grazie anche per le tue considerazioni in merito alla città di Trieste. Non ci sono mai stato e credo che sia una città che meriti di essere visitata.

  1. In Italia c’è stato un periodo immediatamente successivo alla Prima Guerra Mondiale molto fecondo e libero intellettualmente, che è continuato anche sotto il regime fascista, che, a parte i casi di dichiarati antifascisti, (Gramsci, Carlo Levi, Ignazio Silone su tutti) non perseguitò o cercò di irregimentire gli alfieri delle belle lettere. Lo stesso Bottai (ministro dell’educazione dal 1936) aiutò concretamente i letterati in difficoltà. Se non sbaglio fu lui ad emanare una legge con la quale personalità di chiara fama potevano accedere all’ insegnamento istituzionale. Ungaretti e Quasimodo, che non avevano titoli di studio da incorniciare, vi ricorsero per poter avere uno stipendio e dedicarsi alla Poesia, che anche allora non era un’attività redditizia. La cultura tra le due guerre fu animata da una serie di autodidatti che la vivificarono e la impreziosirono. Prezzolini, Papini, Cardarelli, Moravia, Vittorini, Saba, Penna, Montale, Pratolini, tanto per fare alcuni nomi prestigiosi, avevano a mala pena conseguito un titolo di studio Superiore, peraltro senza passare per le scuole ginnasiali. Oggi che tutti sono laureati, e se non lo dimostri hai l’accesso chiuso alle istituzioni culturali, i poeti, con qualche eccezione, sono morti e gli scrittori di fama sono quasi tutti dei mediocri, che cercano di scrivere thriller perché è un prodotto di massa e la RAI o l’industria cinematografica li ricompensa acquistando i diritti d’autore dei loro libri.
    Lo stesso Svevo, rimandò per decenni la stesura, la correzione e la pubblicazione dei suoi capolavori perché non poteva vivere da letterato, e fu direttore di una fabbrica di vernici.
    Nel secondo dopoguerra gli autodidatti, se non si acclimatavano nel cerchio magico di Sinistra, venivano lasciati morire di fama e di fame.
    Cardarelli morì malato e povero. Sandro Penna sopravviveva di piccoli affari nel mondo artistico, ossia rivendeva i disegni o i quadri che gli amici pittori gli regalavano per sostenerlo. Prezzolini preferì risiedere in Svizzera. Silone fu emarginato.

Lascia un commento

error: Questo contenuto è protetto