DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “L’uomo d’affari””

L’uomo d’affari è un articolo di Italo Svevo pubblicato il 17 ottobre del 1883 sul periodico triestino L’Inevitabile. In esso l’autore afferma di ritenere che sia di recente invenzione la nuova categoria lavorativa di chi si dedica, nella vita, a “far degli affari”. Con questa espressione Svevo intende però non il ruolo svolto da chi, nella società, li affari li fa davvero, come chi si occupa di lavori pubblici o come i grossi negozianti, finanche i grossi capitalisti.

«Il mestiere di far degli affari» – dice Svevo – «consiste nel non averne mai sottomano nessuno e andarne cercando a fiuto, per la piazza, come il maiale cerca i tartufi». L’uomo d’affari è un personaggio che, nella vita, ha fallito e che impiega la parte restante della sua esistenza ad arrabattarsi invischiandosi confusamente in attività di tutti i tipi, senza aver alcuna competenza né capacità.

Naturalmente propenso al non far nulla e con una forte ripugnanza nei confronti di tutte le attività che comportano fatica, impegno e che richiedono una certa dose di preparazione e di competenza, l’uomo d’affari tenta volentieri, piuttosto, la via dell’“accattonaggio inguantato”, chiedendo prestiti agli amici, ai quali, puntualmente, non restituisce la cifra concessagli.

Gli amici, però, avendo capito il suo sporco gioco, lo abbandonano ben presto e lui, rimasto solo, si decide, costretto alfine, a fare qualcosa. Mancandogli persino il denaro sufficiente a rattopparsi le scarpe rotte, ecco che allora si mette a bighellonare per le strade della città, «frammettendosi a sensali di professione, rigattieri e piccoli cottimanti di lavori, e studiandosi di insinuarsi, a mo’ di conio, nelle loro operazioni».

Ciò di cui si occupa l’uomo d’affari, in fin dei conti, è di curiosare e di ficcare il naso nelle faccende altrui, tentando di fiutare un affare da gestire. Egli si limita, cioè, a raggiungere l’obiettivo di venire a sapere che c’è un lavoro da fare. A quel punto «corre dal cottimista, dal capomastro, magari dal muratore, e gli mormora sotto i buchi del naso: “Eh, c’è un lavoro da fare!” Trova un mercante di campagna, un fittaiuolo, che ha disponibile una partita di grano, di legna da ardere, di fichi secchi? E vola dal sensale e gli grida levando alte le braccia e gli occhi al cielo: “Magnifico affare! Magnifico affare!”».

Se l’affare viene concluso, cioè se il lavoro viene svolto, l’“uomo d’affari” allunga il braccio e predispone la mano per ricevere un compenso, quale misero riconoscimento del suo interessamento.

Si ravvisa palesemente in quella dell’uomo d’affari, prodromica rispetto a un futuro non troppo lontano, una tipologia professionale pienamente istituzionalizzata nel mondo contemporaneo e che rappresenta un percorso lavorativo frequentemente intrapreso da molti aspiranti lavoratori.

A differenza dell’uomo d’affari di cui Svevo tratteggia la fisionomia alla fine dell’Ottocento, il modo in cui si presenta un lavoratore che abbia intrapreso la carriera dell’uomo d’affari ai giorni nostri, pare perfettamente rispettabile e assolutamente dignitoso.

Se l’uomo d’affari di Svevo sembra un uomo di strada, che gironzola per i bar del centro, «unto, bisunto, col cappello sfondato, la camicia sudicia, la cravatta cenciosa, il panciotto assente, la giacca a rappezzi, i pantaloni a frange, le scarpe a crepacci», l’uomo d’affari del ventunesimo secolo è invece una figura professionale che, nell’immaginario collettivo, suscita l’idea di un uomo agghindato di tutto punto, impeccabile nel suo vestito scuro, in giacca e cravatta e rigorosamente in ordine, perfettamente in grado di convincere gli altri circa la sua piena affidabilità.

Agenti commerciali, mediatori o intermediari di vendita, figure professionali che si occupano di mettere in contatto acquirente e venditore, agiscono all’interno del sistema sociale in maniera strutturale. Pienamente istituzionalizzate, queste figure risultano perfino ineludibili per chi intende concludere un affare, rappresentando un passaggio al quale non si può rinunciare. E il servizio che esse svolgono è spesso retribuito profumatamente.

Tra tutte, forse, è quella del cosiddetto “procacciatore d’affari” la professione che idealmente più si avvicina al modello suggerito da Svevo.

Lavoratore autonomo, senza vincoli di subordinazione, il procacciatore d’affari viene scelto dalle stesse aziende per aumentare la propria clientela.

L’attività del procacciatore d’affari non risulta regolamentata da norme di legge. E per svolgere questa professione non è necessario possedere alcun requisito particolare, cioè non è richiesto uno specifico titolo di studio, né alcuna abilitazione o specializzazione.

Si provi, però, a prescindere dal caso specifico del “procacciatore d’affari”, a cui si è appena fatto riferimento, e si ricavino delle considerazioni di carattere generale. Si evidenzia in tutta chiarezza, cioè, come nella modernità si sia verificata, in molti ambiti, una progressiva rarefazione delle competenze specialistiche, soprattutto in alcuni impieghi lavorativi.

L’inettitudine, intesa come mancanza di capacità di approcciarsi con rigore ed efficacia nei confronti degli impegni della vita, è percepibile come componente svalutante che ha ristrutturato il sistema professionale, introducendo nuove figure lavorative.

A una specializzazione del sapere e all’approfondimento scientifico in tutti gli ambiti della conoscenza ha fatto seguito anche una paradossale genericità delle competenze e generalizzazione delle mansioni professionali svolte.

L’attuale impoverimento del bagaglio culturale medio nella società forse può essere riferito, per converso, a un aumento dell’incapacità di far fronte a un mondo tecnicamente e tecnologicamente troppo specializzato e sempre più incontrollabile?

6 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “L’uomo d’affari””

  1. Leggere i tuoi articoli, caro Davide, mi fa ogni volta pensare che avrei voluto avere un professore come te! Ti ringrazio perché leggendo i tuoi scritti mi immergo totalmente nella ricchezza della nostra cultura.
    L’uomo d’affari le cui caratteristiche hai descritto, con particolare riferimento all’incompetenza pressoché assoluta in ogni campo, mi ha richiamato immediatamente alla memoria, a titolo meramente esemplificativo ma assolutamente non esaustivo, gli ex ministri Di Maio ed Azzolina . Il primo, di abissale ignoranza, ci ha regalato figuracce in tutto l’universo e la seconda passerà alla storia per i banchi a rotelle.
    L’incompetenza al potere ha causato un duplice danno alla nostra Patria: uno diretto causato dalle azioni dirette (ad esempio lo sperpero di denaro pubblico per l’acquisto dei banchi a rotelle); l’altro, indiretto, è aver permesso con la loro incompetenza, a dei givernanti senza scrupoli di fare scempio del nostro paese.
    Purtroppo questa situazione si verifica anche nell’ambito della pubblica amministrazione, ad iniziare dai ministeri giù giù fino agli enti locali.
    E nel nostro caso, quello della PA, intendo, l’evoluzione tecnologica è poco rilevante, dato che la vera difficoltà sta nella terribile farraginosità delle normative.
    È essenziale recuperare la competenza, non solo come preparazionetecnica ma anche in termini di capacità di far funzionare il cervello, che è la parte secondo me che in molti casi non è ancora uscito dal lockdown.
    Persone preparate ed in grado di ragionare non sono facilmente tramutabili in “utili idioti”.
    Noi della Casa della Civiltà siamo sulla buona strada e come dice sempre Magdi, andiamo avanti, senza timore e con la schiena dritta.

    1. Hai perfettamente ragione, Andreina. Il tuo riferimento a Di Maio e Azzolina è assolutamente pertinente. Degli straccioni incapaci vestiti di tutto punto con abiti firmati e dalla posizione lavorativa d’élite. Figure inutili come lo sono anche tanti mediatori che complicano i passaggi burocratici delle operazioni amministrative e gestionali in vari ambiti. Che schifo!

      1. Svevo aveva già individuato nell’ “Uomo d’affari” quel tipo di individuo, che esisteva sicuramente in altre epoche, nelle città e nelle campagne, con diversi nomi. Il termine odierno più giusto – non so se regolato presso la Camera di Commercio e obbligato ad avere partita IVA e contabilità – in tempi più recenti si chiamava, e si chiama ancora sotto il profilo burocratico, “procacciatore di affari”: una figura stimabile o reprensibile a seconda dei casi o della persona.
        Una figura simile, con connotati dispregiativi, è il cosiddetto “affarista”. Se a un imprenditore o mediatore di affari vari, gli si appiccica il termine di affarista, ebbene, colui, per dirla alla romana, ” Nun è n cazzo de bbòno”. Ora, chissà perché , questi affaristi o maneggioni trafficano tutti intorno alle pubbliche amministrazioni, come le api intorno al favo, o meglio, secondo il punto di vista etico, come le mosche intorno alla merda. Non solo vi trafficano, ma vi trànsitano, vi stazionano in qualità di pubblici amministratori, grazie a una nomina politica, legalizzata mediante democratiche competizioni elettorali.
        Sono i furbi, gli astuti, “quelli che cce sanno fà”, a differenza degli onesti o delle persone con cultura umanista, che coltivano una cosa astratta come i valori umani, e sono da loro considerati soltanto inetti e sprovveduti.

  2. Concordo con quanto prospettato da Davide.
    Letterariamente l’uomo d’affari di Svevo è un personaggio particolare, che potrebbe avvicinarsi al procacciatore, al mediatore d’affari, di antica fama, ma con una connotazione in più determinante e diversificante che è l’inettitudine, poi ripresa da Svevo nei romanzi maggiori.
    Anche nei nostri paesi vi sono spesso delle figure simili. Il mediatore era colui che conosceva tutti in paese, che sapeva tutto di tutti, soprattutto i loro affari e desideri. Che metteva assieme chi voleva comprare o vendere, un vitello come un terreno od una casa o altro e come un giudice decideva il prezzo e faceva stringere le mani fra le sue a suggellare e garantire la vendita. Costui però doveva avere qualità commerciali, conoscere i prezzi, le offerte, oltre che conoscere le persone, vizi e virtù, come anche avere capacità di empatia, fiducia, bonomia e parola pronta e convincente. Tecnicamente laureato sul campo della vita e dell’umanità. Guadagnava bene anche e girava col macchinone. Alle donne spesso faceva l’effetto di uomo simpatico, simpatia a cui non si sottraeva ed alimentava, complice una certa agiatezza economica ed una sorta di potere da uomo di successo e autorevolezza riconosciuta da tutti. Lui sensibile al richiamo femminile non disdegnava affari di cuore, passeggeri però, spesso con donne sposate, che dopo assaggiate le grandi doti mascoline non esitavano dal tramandarne le gesta e consigliarne la prova.
    Però appunto al mediatore servivano vere capacità, diversamente dal personaggio di Svevo. Oggi invece questo tipo umano lo ritroviamo in certi intromettitori ed affaristi coinvolti in inchieste di malaffare, tipo Roma Capitale ed altre, che continuano a venire nella cronaca giudiziaria, come nelle mafie, ma questi hanno in sé una innata furbizia e voracità degenerata.
    Una figura che forse oggi si avvicina di più ritengo siano gli ‘influencer’, ed i tuttologi che infestano i social, i cossiddetti ‘esperti’ anche se hanno solo letto qualche libro o fatto qualche ricerca e studio personale. Abbiamo visto zanzarologhi chiamati a fare le virostar, burocrati e medici per caso chiamati ad interpretare la Scienzah, senza aver visto un laboratorio.
    Alla domanda finale di Davide risponderei che
    in effetti la iperspecializzazione tecnologica e delle discipline, ad esempio quelle mediche, ha portato all’impoverimento delle conoscenze generali e comprensive. Il bisogno di dare risposte e cure più precise ed approfondite porta ad un demandare alla specialità ogni competenza e responsabilità togliendo empatia e compartecipazione piena al percorso di diagnosi e cura e quindi efficacia nel rapporto col paziente.
    Ciò penso valga anche in altri ambiti. Lo specialista può essere efficace quasi solo nella sua specialità, il medico generico su quasi nessuna. Gli stessi vertici sanitari sembrano aver dimenticato come far diagnosi e curare, o sono pagati per dimenticarlo. La formula ippocratica : ANAMNESI REMOTA +ANAMNESI PROSSIMA + ESAME OBBIETTIVO= DIAGNOSI DIFFERENZIALE E DIAGNOSI OBBIETTIVA che porti alla CURA E PROGNOSI, sembra oggi sempre più devoluta alla tecnologia, al digitale, tanto da temere non a torto che avremo per medico domani una Intelligenza Artificiale, il dottor Algoritmo, che soppiantera’ o almeno condizionera’ pesantemente il medico e l’uomo.
    Temo non esisterà più il dottor Manson della “Cittadella” di Cronin, che da medico di villaggio generico farà una amputazione urgente di arto ad un minatore intrappolato in miniera, od altro.
    Come non ci si ricorderà del dottor House, burbero, sofferente ma acutissimo.
    Personaggi purtroppo di tempi migliori.

    1. Grazie del tuo commento Gianni. Mi è piaciuto il tuo riferimento al personaggio “laureato all’università della vita”, del quale, però, io non avrei comunque molta stima. Per quanto riguarda la tecnificazione e la specializzazione delle conoscenze e, per converso, l’abbassamento medio della preparazione e delle conoscenze nella società, ti ringrazio per aver avvalorato la mia ipotesi rifedendoti, nello specifico, all’ambito medico nel quale sei competente. Dispiace evidenziare spesso il paradosso determinato dal fatto che l’avanzamento scientifico e delle potenzialità della conoscenza non corrisponda a un parallelo miglioramento dell’umanità.

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