Fa parte di Novelle rusticane un singolare racconto che, tra le altre, presenta la particolarità di avere come protagonista un animale, non un essere umano. Si tratta della Storia dell’asino di san Giuseppe, novella che narra l’intero percorso esistenziale, dalla nascita alla morte, di un asino, detto di san Giuseppe per l’insolito colore bianco e nero del pelame di cui è ricoperto. Questa caratteristica singolare fa nascere in chi lo vede il pregiudizio che si tratti di un asino buono a nulla, un «vigliacco», come lo definisce compare Neli rivolgendosi all’iniziale proprietario dell’animale che lo ha messo in vendita alla fiera di Buccheri.
Un’articolata trattativa fatta di continue offerte al ribasso del prezzo iniziale al quale era stata proposta la vendita, porta compare Neli ad acquistare soddisfatto l’animale, del quale aveva riconosciuto la giovinezza e il potenziale valore ai fini di un possibile sfruttamento in ambito lavorativo della bestia, usandola per trasportare «tumuli di farro, meglio di un mulo».
Sin dall’inizio, l’acquirente e il venditore mostrano un atteggiamento tipico del mercanteggiare sulla merce, svilendola o valorizzandola agli occhi l’un dell’altro e manifestano, al contempo, l’intenzione di sfruttare al massimo l’animale per ricavarne il maggior guadagno economico possibile.
Così come Rosso Malpelo, a partire dal momento in cui viene al mondo, è segnato dall’invalicabile destino di individuo oppresso dal peso della sofferenza e di un mondo che grava su di lui per colpe mai commesse, «l’asino di san Giuseppe» è connotato negativamente per l’aspetto coloristico della sua pelliccia che fa di lui un animale destinato al maltrattamento e alla violenza.
«Le bestie di quel colore sono tutte vigliacche» è la considerazione fatta esplicitamente o sottesa, che accomuna tutti i padroni dell’asino nel passaggio da un proprietario all’altro.
Le tappe della vita dell’animale sono segnate da un sempre più significativo cedimento delle forze vitali a cui corrisponde un progressivo abbassamento del valore economico e quindi del prezzo a cui l’asino viene volta per volta venduto, senza alcun riguardo per i contenuti affettivi né risentendo di alcuna forma di legame umano nei riguardi della povera bestia.
Piuttosto, mosso da un iniziale slancio di giocosa giovinezza e quasi animato da un inusuale trasporto sentimentale, è anzi proprio l’asino che, negli atteggiamenti attraverso i quali è descritto, sembra capace di un avvicinamento affettivo verso il nuovo padrone, cioè proprio Neli, quando «badava a saltellar[gli] dietro […], cercando di addentargli il giubbone per giuoco».
Il padrone, per converso, porta l’asino alla trebbiatura «legato in fila per il collo colle altre bestie», e ne sfrutta le forze fisiche al punto che, stanco morto, a fine giornata, l’animale si lascia cadere col «muso e le orecchie ciondoloni come un asino fatto, coll’occhio spento, quasi fosse stanco di guardare quella vasta campagna bianca […] [che] pareva non fosse fatta per altro che per lasciar morire di sete e far trottare sui covoni».
È proprio la comunità umana che, sfondo e protagonista al contempo della novella, risulta pervasa in toto delle leggi e dei valori dell’economica che hanno annullato ogni istanza alla solidarietà e al contatto naturale, annientando la sostanza di una realtà rurale, qual è quella descritta anche in questo racconto, del tutto alterata e che l’autore non riconosce più.
La sovrastruttura del progresso regola ogni scelta di vita e mostra, ancora una volta, l’ineluttabile effetto dello scardinamento della società del passato, senza riconoscere un’alternativa di ricostituzione o di riedificazione.
Facendo un parallelismo tra la vita dell’animale e le leggi che regolano la società umana, Romano Luperini osserva che, tra gli uomini, si può evidenziare «la stessa spietatezza delle norme economiche di cui è vittima la povera bestia».
Il richiamo a questo doveroso confronto appare ancor più tangibile nella parte conclusiva della novella, nella quale, ormai vecchio e stanco, l’animale viene venduto a una famiglia di padroni umili e poverissimi, quasi nulla tenenti.
Mossi dal bisogno di scaldarsi e di trovare conforto nella vicinanza fisica, una madre e un figlio umanizzano l’asino e gli dormono accanto, sfruttando il calore del suo fiato. Per la prima volta, nel corso del racconto, i nuovi padroni hanno con l’animale un rapporto affettivo sincero, gli vogliono bene e ritengono perciò l’asino un tesoro inestimabile.
Il figlio, però, cade vittima della spietata legge regolatrice dei conti che vige tra gli umani e, scoperto a rubacchiare, viene massacrato di botte.
La donna, allora, per pagare le spese mediche per il figlio ferito gravemente, si vede costretta a tornare a sfruttare l’animale a scopo economico e, caricatolo di legna per venderla, causa nella bestia uno sforzo fisico eccessivo al punto che, mentre questi procede nel disperato tentativo di giungere a consegnare il carico che porta sulla schiena, l’asino si accascia e muore.
Si ravvisa, quindi, un’ultima speranza, benché condannata a spegnersi anch’essa, che vede la possibilità potenziale di un ritorno all’essenzialità dell’esistenza in chi non vive una vita alterata dagli interessi.
Possiamo pensare a una soluzione di questo tipo nella prospettiva di una rifondazione civile e culturale dell’umanità?
La novella, però, si chiude con la drammatica battuta di un carrettiere che, mentre la donna è in lacrime di fronte al corpo esanime dell’asino, svilendo ogni slancio di commozione di fronte alla scena, pronuncia le seguenti parole:
– Se volete venderlo con tutta la legna ve ne do cinque tarì – e aggiunge: – Compro soltanto la legna, perché l’asino ecco cosa vale! – e dà «una pedata sul carcame» dell’animale, «che [risuona orribilmente] come un tamburo sfondato».
Siamo un po’ tutti come l’asino di san Giuseppe… condannati a schiattare per l’eccessivo carico di lavoro o più lavori che dobbiamo fare per mantenere una famiglia o un fasullo benessere.
Assolutamente sì!
Grazie a te, Angela. Verga ha una lucidità e una lungimiranza che lo rendono attualissimo. Rileggere Verga lo ritengo atto dovuto, imprescindibile. E dire che c’è chi ne propone l’abolizione dai programmi scolastici. No ma, davvero, continuiamo allora a dare le caramelle agli asini, proprio come giustamente lamenti tu!
Novella tristissima, ma purtroppo realistica. Il parallelismo con la società attuale è quanto mai evidente. Ma quanti sono in grado di percepirlo? Ogni aspetto, sia pur minimo, della vita è manovrato dall’alto, ovvero dai compratori/venditori dell’asino. Temo, mi sento pessimista, che, come l’asino, molti degli esseri umani non siano in grado percepire la schiavitù, mascherata da tante “caramelle” offerte per far credere di essere liberi, che incatenano sempre più velocemente fino alla fine. Abbiamo assistito a proibizioni e norme liberticide, difese dalla maggioranza, all’accettazione in silenzio di trovarci nemici in guerra assurda, al mutismo verso un’invasione fuori controllo della nostra terra, a sventolare la bandiera della patria solo alle partite di calcio….insomma poveri asini. Spero che con l’esempio e la tenacia torneremo ad esseri UMANI nel pieno significato del termine. Grazie Davide.