DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “La mosca di Pirandello: la morte come conquista dell’autenticità esistenziale”

È del 1904 la novella La mosca che appare, per la prima volta, sulle pagine della rivista fiorentina Il Marzocco esuccessivamente viene inclusa da Pirandello in una raccolta omonima di racconti che andrà a costituire il quinto volume delle Novelle per un anno. Interessante e certo non casuale la scelta dell’autore di dedicare una sua opera a un protagonista non umano. Lo scrittore ricalca, così, una tendenza che si era già consolidata tra le scelte della narrativa verista e che aveva visto anche Verga tra i suoi più significativi interpreti.

Di stampo verista è, di fatto, proprio l’impostazione del racconto, in cui la narrazione dei fatti inizia in medias res, presentando una situazione confusionaria e immersa nel caos. I fratelli Tortorici, Neli e Saro, corrono affannati per le vie del paese in direzione dell’abitazione del medico condotto, affinché questi intervenga urgentemente per soccorrere Giurlannu Zarù, loro cugino, il quale si trova in seria difficoltà per via delle sue gravi condizioni di salute.

Il dottor Sidoro Lopiccolo, che accoglie i fratelli presso la sua abitazione, viene descritto come un uomo sciatto, assillato da molteplici doveri e stanco. Il disordine e l’incuria che dominano sovrani all’interno dell’abitazione del medico, rivelano la sua scarsa voglia di vivere, afflitto dal peso insormontabile di un’esistenza condotta nel totale rispetto delle responsabilità matrimoniali e delle incombenze sociali.

L’infelicità di Lopiccolo viene evidenziata descrivendone gli atteggiamenti all’interno di un piccolo spaccato della sua quotidianità. Egli ha sette figli i quali, uno dopo l’altro, gli si affollano tra le gambe mentre la donna, con la quale è sposato, è malata e da undici mesi è costretta a restare sdraiata su un letto. Gli impegni che siffatta situazione famigliare comportano, rappresentano il diametrale ribaltamento delle aspettative e delle speranze che la madre di Sidoro Lopiccolo nutriva nei suoi riguardi quando questi era ancora giovane e lei si aspettava “grandi cose da lui ch’era il beniamino, la colonna, lo stendardo della casa”.

Un ritratto fotografico del dottore appena laureato e sorridente, appeso alla parete e ancora intatto, è tutto ciò che di quelle speranze è rimasto nella vita di Lopiccolo. Ad un certo punto egli è protagonista di una scenetta dal valore simbolico e rappresentativo: Lopiccolo si reca di fronte a quell’immagine fotografica appesa, la osserva e a mo’ di irriverente venerazione al se stesso del passato, si pone in ginocchio nell’atto sarcastico di porgergli in offerta una delle sue figliolette malata.

Nonostante il ruolo secondario del dottor Lopiccolo nello sviluppo dell’intreccio della vicenda, è significativo il rilievo che tale personaggio assume attraverso la focalizzazione prospettica che Pirandello gli concede. Emblematica appare la fisionomia del medico se rapportata allo smarrimento esistenziale dell’umanità moderna all’interno di un contesto sociale svalutante rispetto alle individualità e alle aspirazioni dei singoli.

La dimensione privata della vita del dottore si caratterizza come quella di un uomo la cui identità non corrisponde con quella del se stesso rappresentato nel ritratto. Lopiccolo si limita a contemplare l’altro sé presente in foto, scongiurando, così, quello smarrimento esistenziale a cui il personaggio andrebbe incontro se non acquisisse piena coscienza di sé e di questo sdoppiamento di ruoli.

La duplicità della vita di Lopiccolo è potenzialmente ancor più drammatica perché accentuata dall’ulteriore sfasamento dei piani temporali, tra il sé attuale e il sé giovane, che renderebbe impossibile ricomporre l’unità identitaria del soggetto, condannandolo definitivamente alla follia.

Al personaggio del dottor Lopiccolo si contrappone quello di Neli, il più giovane tra i due fratelli Tortorici accorsi presso l’abitazione del medico. Neli ha solo vent’anni e, in quanto ragazzo poco più che adolescente, possiede un entusiasmo tipicamente giovanile animato da speranze e aspettative verso il futuro. Colmo di gioia e di voglia di vivere, Neli non è turbato affatto dall’atteggiamento deluso del dottore e, scendendo per le scale dell’appartamento di Lopiccolo al fine di tornare per strada, sorride fantasticando sui progetti matrimoniali che ha con Luzza, la sua fidanzata.

In quel giorno di domenica d’estate a Neli preme, soprattutto, incontrarsi con la sua ragazza. Il suo proposito è quello di risolvere presto la faccenda del cugino Zarù, in modo da liberarsi in tempo per recarsi a un appuntamento con la propria bella. Prima di tornare a soccorrere Zarù, Neli passa quindi dal barbiere per farsi radere la barba, in modo da apparire agli occhi della ragazza ancor più bello e perfettamente in ordine.

I fratelli Tortorici e il dottor Lopiccolo si mettono, quindi, in viaggio, in groppa a una mula, per raggiungere, fuori dal paese, la località di Montelusa dove, dentro una stalla, Giurlannu Zarù sta morendo.

Giunti alla stalla, Sidoro Lopiccolo visita il malcapitato e gli rivela la diagnosi secondo la quale Zarù sarebbe affetto da una grave forma di carbonchio. Il sospetto da parte del dottore è che Zarù sia stato punto da un insetto.

L’intera giornata precedente Giurlannu Zarù l’aveva trascorsa per i campi, insieme ai cugini e ad altre persone, lì, presso la tenuta di Lopes a Montelusa, a lavorare, sbucciando e schiacciando mandorle. A sera, anziché tornare al paese, Zarù si era addormentato dentro quella stalla.

La narrazione viene a questo punto proiettata tutta all’interno dei pensieri di Zarù il quale, in preda ai deliri della febbre alta, volgendo lo sguardo verso la parete del capannone di fronte a sé, ha l’impressione di scorgere una mosca.

“Tra l’affanno catarroso” Zarù domanda, “con una voce da caverna: – Una mosca, può essere?” Ed ecco che il moribondo comincia a contemplare assorto e concentrato i movimenti di quella mosca. La quale, a un certo punto, si mette a volare e va a poggiarsi sulla guancia di Neli che ha un taglietto fresco sul mento, provocato dal barbiere che, inavvertitamente, lo ha ferito col rasoio.

Neli, concentrato sull’ascolto delle parole della conversazione in corso, non si accorge della mosca e Zarù gode della distrazione del cugino che potrebbe subire il suo stesso destino. L’uomo viene dominato da una gelosia feroce nei riguardi “di quel giovane cugino così bello e florido”, al quale la vita è ancora piena di promesse e di speranze. A lui, invece, quella stessa vita sta per venire a mancare.

Un oscuro e perverso desiderio di pareggiare le sorti funge da malizioso sollievo nel momento conclusivo dell’esistenza, in cui Zarù prova soddisfazione all’idea di una macabra giustizia che conferisca la stessa sorte anche a Neli. Questi infatti si sente pungere, si desta e caccia via la mosca, cominciando a premere le dita sul taglietto che ha sul mento.

Neli, a quel punto, si mette a osservare fisso negli occhi Zarù e rimane sconcertato “vedendo che [il cugino] [ha aperto] le labbra orrende a un sorriso mostruoso”. I due rimangono così per qualche attimo a guardarsi a vicenda fino a quando Zarù, quasi istintivamente, pronuncia la battuta: – La mosca.

La presa di coscienza della fugacità dell’esistenza, nell’atto in cui essa sta per concludersi, conferisce al personaggio principale uno slancio vitale che giunge a pienezza nel momento della razionale pacata rivelazione del gioco perverso della vita stessa. Zarù si estranea da sé, si osserva e osserva gli altri, perdendo quell’interesse doloroso verso la propria sorte che non gli avrebbe mai permesso di trovar pace.

Il sorriso “mostruoso” con cui egli si rivolge al cugino che sta per cader vittima anche lui della puntura di quella mosca contraendo la terribile malattia, ispira un senso di inquietudine non familiare alla scena finale. Ma quel sorriso rivela l’appagamento che solo la liberazione da ogni vincolo esistenziale concede di raggiungere, ribaltando o appianando i ruoli. Togliendosi le maschere che impongono il rispetto estrinseco dei condizionamenti della vita, i personaggi conquistano un’autenticità esistenziale che coincide, paradossalmente, con la fine della vita stessa.

In conclusione, si presenta, invero, uno straniamento che permette di decretare, in maniera disarmante ma perentoria, la falsità di fondo dei rapporti e dei vincoli che legano l’individuo agli altri. Lo svilimento ontologico dell’umanità nell’ottica prospettica di un nichilismo moderno si rivela pienamente confermato in questa novella di Pirandello.

4 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “La mosca di Pirandello: la morte come conquista dell’autenticità esistenziale”

  1. Purtroppo i miei studi scolastici non mi hanno fatto avvicinare ai grandi della nostra Letteratura.Pertanto non sono in grado di apprezzare nella sua interezza e profondità gli insegnamenti di questa opera letteraria . La mia riflessione è che la natura umana, i sentimenti , i pensieri che nascono dalla mente e dal cuore dell’uomo sono immutabili nel tempo. Cambiano i tempi, le condizioni sociali, ma l’ uomo resta sempre lo stesso nella sua natura umana ed immutabile è l’ impronta con la quale Dio l’ha forgiato.

  2. È sempre molto interessante leggere i tuoi scritti Davide, dai quali imparo sempre qualcosa.
    Mi stupisco sempre quanto le situazioni descritte nelle opere dei grandi autori del passato siano perfettamente sovrapponibili a quelle odierne. Avevano perfettamente compreso l’animo umano, che non è mai cambiato.
    Pare anzi che nei tempi nostri stia in realtà venendo in superficie il lato peggiore, soprattutto di alcuni.

    1. Esatto, Andreina. È sorprendente quanto la nostra letteratura contenga già molte delle risposte che cerchiamo. I grandi autori, possiamo ben dirlo, si sono fatti le nostre stesse domande. Dobbiamo continuare a leggerli. Noi non saremo grandi quanto loro, ma almeno riconosciamoci di essere sulla strada giusta.

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