STEFANIA CELENZA: “Omogenitorialità, cosa c’è che non va”

Quello che è quasi irrisorio oggi è che ci troviamo a dover discutere di concetti elementari, che solo qualche decennio fa nessuno avrebbe mai pensato di mettere in dubbio. Siamo costretti alla “difesa dell’ovvio”, come dice la Dott. Silvana de Mari o a disquisire se una mela sia davvero una mela, come evoca sempre l’Avv. Gianfranco Amato, parafrasando Tommaso d’Aquino.
E’ pur vero che il principio di realtà di per sé è un concetto metafisico, ma in questa nostra attualità è diventato il puntello principale del relativismo etico, su cui si fonda tutta l’ideologia dominante. L’omogenitorialità è un altro di questi puntelli.
L’omogenitorialità è la pretesa dell’omosessuale di essere genitore.
Pretesa di essere genitore in quanto omosessuale, ovvero rinunciando, anzi rifiutando, con coscienza e volontà, alla eterosessualità procreativa. Perché, beninteso, l’omosessuale ben potrebbe generare, secondo le leggi della natura. Tuttavia, si rivendica il diritto al figlio, a prescindere.
Si allude alla adozione di minori, da parte di coppie omosessuali o lesbiche.
In un contesto dove sembra addirittura che la stessa differenza fra l’essere maschio e l’essere femmina sia una intrinseca forma di discriminazione della natura, si tenta di porvi rimedio, almeno scongiurando la intollerabile discriminazione derivata dal fatto che le coppie eterosessuali possono adottare bambini, mentre quelle omosessuali no.
Per prendere una posizione corretta su un argomento così importante e controverso, occorre riferirsi a ciò che, a gran voce, ultimamente, viene invocata in ogni contesto: la scienza.
Trattandosi di bambini, in particolare, occorre riferirsi alla Psicologia della età
evolutiva. Questa, come è noto, nasce come scienza autonoma all’inizio del 1900.
La psicologia dell’età evolutiva è il ramo della psicologia che studia le modificazioni del comportamento, nelle prime fasi della vita e nel loro processo di formazione della personalità. L’età evolutiva si riferisce a quel periodo della vita nel quale si struttura l’accrescimento e la differenziazione delle varie funzioni.
Anche la vita embriofetale è stata inclusa nella età evolutiva.
Questa branca della psicologia ci ha insegnato, per prima cosa, che l’influenza
ambientale gioca un ruolo affatto marginale nello sviluppo della persona, financo
nella vita intrauterina.
Si è visto che il dato biografico, ovvero i rapporti genitoriali, familiari, sociali e
ambientali assumono un valore plasmante e condizionante con il passare del tempo e con l’allargamento delle figure di riferimento. Ciò definisce il processo di
strutturazione della “identità personale”, ovvero la ricerca di risposta alla ancestrale ed inconsapevole domanda: «Chi sono io?». Tale conoscenza del sé, nei primi anni di vita, il bambino la sviluppa nello stretto ambito familiare, primo fra tutti quello genitoriale. Si è visto che la necessità di conoscersi del bambino fonda la sua importanza dal dato della differenza sessuale genitoriale, attraverso la quale egli impara e costruisce la propria identità e diversità sessuale. L’apprendimento e la gestione del proprio sesso richiede che giunga al bambino un flusso di informazioni e di relazioni bidirezionali. Per questo il bambino trova soddisfacimento nella presenza rassicurante di entrambe le figure adulte, nelle quali rispecchiarsi, per identificarsi, fra similitudini e diversità. Vi è poi un’altra scoperta biologica che ha rivoluzionato le nostre conoscenze, in tema di sviluppo e di apprendimento cognitivo, ovvero l’esistenza del cosiddetto “sistema di rispecchiamento”, la cui struttura cellulare è costituita dai “neuroni a specchio”. Questi consentono al cervello di correlare le azioni osservate, alle proprie, riconoscendone intenzione e significato. È decisivo il sistema di rispecchiamento per la costruzione del bagaglio di esperienza comune, che sta all’origine della nostra capacità di agire, come soggetti sociali. La socialità è un altro fondante tassello della personalità. È impossibile pensare ad un IO, senza un NOI. Dire PERSONA è dire RELAZIONE. La nostra personalità è una struttura aperta e dinamica. Ma il bambino le prime relazioni sociali le esperisce, le impara e le
elabora con i propri genitori. Quello familiare è il legame primigenio di relazione
affettivo-emotiva assolutamente unico ed irripetibile. La conoscenza del sé, corporeo e psichico, richiede, per il bambino, il confronto diretto, costante e stringente con le figure genitoriali che incarnano la similarità e la differenza sessuale, fisica e cognitiva (padre=maschio, madre=femmina), attraverso cui impara la complementarità sessuale e sociale di tali differenze. Questo ci insegna la scienza.
Ma se noi, nel momento in cui il bambino esperisce tutti i suoi tentativi di cognizione sessuale, lo priviamo di una delle sue figure di riferimento o peggio gli creiamo condizioni di ambiguità, possiamo provocare in lui un processo di regressione intrapsichica che interferirà negativamente nel conseguimento dello sviluppo fisiologico della sua personalità.
È stato, infatti, comprovato che i figli di genitori con tendenze omosessuali sono più esposti a rischi, nello sviluppo della loro identità di genere. Del resto, tutte le
statistiche attestano una maggiore incidenza di malattie fisiche o psichiche nella
popolazione omosessuale, rispetto alla popolazione in generale, con la conseguenza di una vita più breve nelle persone gay o lesbiche, rispetto alla popolazione generale.
Al contrario, dal fronte opposto, non esistono studi scientifici o statistici che
avvalorino la bontà della crescita di bambini con genitori omosessuali.
Non esistono studi specifici approfonditi sul rapporto fra omogenitorialità e sviluppo psicofisico del bambino.
Nondimeno, la totale assenza di prove scientifiche non ha impedito alla AAP
(American Academy of Pediatrics) di affermare che «non vi è alcuna differenza
sistematica tra genitori gay e non gay per salute emotiva, capacità genitoriali e
atteggiamenti nei confronti della genitorialità…». Frasi, come si vede, assolutamente vuote di significato logico, prima che scientifico.
Siffatta parziale letteratura sull’argomento è vistosamente influenzata dal pregiudizio favorevole alle posizioni gender. Perciò l’AAP può impunemente affermare che «nessuno studio prova che i bambini di genitori gay o lesbiche sono svantaggiati rispetto ai bambini con genitori eterosessuali», ignorando le importanti conclusioni della Psicologia della età evolutiva sopramenzionate.
Immezzo a simili contesti monotematici, si è levata solo la debole voce della
ricercatrice della Università della Luisiana, Loren Marks (10.06.2012), la quale si è
limitata a concludere, senza troppo contraddire il pensiero unico dominante, «È vero che gay e lesbiche possono essere buoni genitori … ma una stabile unione
matrimoniale fra un padre e una madre resta la forma sociale migliore per il
bambino».
Almeno secondo il basilare principio di precauzione, giuridicamente riconosciuto a livello internazionale (Comm. Precautionary Principle, 2 febbraio 2000, European Environmental Agency 2001), per il maggiore benessere possibile del bambino è, senza il minimo dubbio, preferibile crescere e svilupparsi nel contesto di una coppia stabile ed eterosessuale. Ma perché ci deve essere bisogno di tanti discorsi, per giungere a confermare ciò che è ovvio?


Firenze, 21.09.23
Stefania Celenza  

2 commenti su “STEFANIA CELENZA: “Omogenitorialità, cosa c’è che non va”

  1. Come abbiamo ampiamente discusso nei nostri incontri, questo andamento è pianificato a tavolino per poter spianare la strada al Great Reset, progetto che incomincia a scricchiolare da tutte le parti. Per questo le pressioni sono diventate più incalzanti. Gli occidentali sono ormai facilmente plasmabili su queste direttive, ma il resto del mondo sembra proprio averle rifiutate. Iniziano, comunque, a formarsi timidi movimenti di opposizione (nascosti ovviamente dal mainstream!), in cui si trovano fianco a fianco persino cattolici e musulmani… una nuova battaglia di Vienna?

  2. «Ma perché ci deve essere bisogno di tanti discorsi, per giungere a confermare ciò che è ovvio?». La conclusione del nuovo contributo di Stefania Celenza sull’adozione dei figli da parte delle coppie omosessuali o lesbiche, ci chiarisce che siamo già sprofondati nel baratro del relativismo valoriale e cognitivo. Oggi siamo costretti a provare scientificamente, facendo riferimento a una disciplina contemporanea, qual è la Psicologia dell’età evolutiva, il fatto che per la sua crescita sana il bambino ha bisogno della madre e del padre, pur essendo un fatto intrinseco alla nostra natura, un’indubbia evidenza della nostra tradizione attestato dalla Storia e codificato in regole morali su cui si fonda la società, che precedono la trasposizione giuridica delle leggi.
    Va da sé, che in questo contesto, diventa possibile destabilizzare i bambini facendo perdere loro la certezza sulla propria identità sessuale, convincendoli che, giorno dopo giorno, possono scegliere a piacimento se attribuirsi un’identità maschile o femminile, a prescindere da come li ha creati Madre natura.
    Dimostrare l’ovvio oggi è diventata una missione pericolosa, perché si rischia non solo l’ostracismo ma persino la condanna per crimini contro la dignità della persona e la libertà di scelta.
    Ciononostante noi continueremo a combattere per affermare la verità in libertà, per amore dei nostri figli e per salvaguardare la cultura della vita e della rigenerazione della vita, la cui crisi ha provocato il tracollo demografico. Tutti, compresi gli omosessuali e le lesbiche, nasciamo da una madre e da un padre; così come tutti, a prescindere dalle nostre idee, siamo condannati a estinguerci come popolo se non facciamo figli.
    Magdi Cristiano Allam

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