Superato alla bell’e meglio il fuoco di fila dei commercianti, ci attendeva uno dei monumenti egizi più noti: il tempio di Deir el-Bahari. Già quando appare in lontananza, esso cattura l’attenzione. Sarà perché lo si è visto tante volte in foto o video, ma è innegabile che il suo prospetto così tipico calamita subito lo sguardo. Incastonato com’è nella montagna, che lo sovrasta ma non lo soffoca, anzi, sembra al contrario esaltarlo; colorato dello stesso colore delle rocce che lo circondano, un giallo vivo, pare star lì a sfidare i millenni.
Gli ingressi architravati si aprono come tanti occhi sulla valle, mentre le gradinate che salgono fino alle piattaforme invitano ad esplorare le terrazze superiori.
E’ il mausoleo di una regina della XVIII dinastia, dal nome impossibile di Hatshepsut, che significa “la più importante tra le donne nobili”. Il tempio, che risale al XV secolo, è dedicato anche a una delle divinità principali, Amon-Ra. Se si eccettua la celeberrima Cleopatra VII, Hatshepsut fu l’unica donna a regnare come faraone e per rafforzare il suo ruolo, decise di presentarsi come un uomo. La vediamo infatti raffigurata nelle sue statue con la barba, che mira a conferirle l’autorità di un maschio.
Questa regina era la figlia di Thutmose I e quando morì nel 1478 a.C il fratello-marito, Thutmose II, prese lei il potere, dato che l’erede diretto, Thutmose III, nipote del re e insieme suo figliastro aveva appena tre anni. La sua decisione fu considerata dal suo successore un atto di usurpazione che non le perdonò mai. Pertanto alla sua morte procedette a deturpare il tempio e le immagini che la riguardavano: anche le sfingi che la raffiguravano vennero gravemente danneggiate per sfregio.
Per meglio sottolineare la sua potenza, la regina volle creare un’opera grandiosa, incaricando del progetto il suo architetto, nonché favorito e tutore di sua figlia, Senenmut. Si tratta di un raro caso in cui conosciamo il nome del costruttore, dato che i monumenti egizi non portano le firme degli artisti che vi lavorarono né questi sono menzionati nei documenti.
La spiegazione andrebbe cercata nella particolare visione che questo popolo aveva dell’arte: il suo scopo era essenzialmente religioso e soprattutto funerario. Tutto l’interesse era concentrato nella glorificazione dei re. Pertanto l’artista era visto alla stregua di un artigiano, la cui produzione è destinata all’anonimato. Questo concetto, che rimase permanente nel corso di millenni, mostra la particolare staticità della civiltà egizia, ancorata a una tradizione che nessun evento politico o sociale poté scalzare. Tale aspetto si ricollega al modo di pensare il mondo degli Egizi, al significato che essi davano all’esistenza. Questa visione unitaria e immutabile attraversò tutta la loro storia ed ebbe come fulcro non la vita su questa terra, ma quella nell’aldilà, anticipando in un certo senso la mentalità del nostro Medioevo.
Il mausoleo di Deir el-Bahari, fra i massimi esemplari nel suo genere, ha una planimetria originale, molto d’effetto, che ha dato spunto ad altri monumenti. Digrada in terrazze recinte da colonne quadrangolari protodoriche che formano dei portici, ornati al loro interno da bassorilievi policromi. Il sito ospita anche due sacrari: uno dedicato ad Hator, dea dell’amore; l’altro ad Anubi, dio dei cimiteri, definito perciò “Signore degli Occidentali”.
Per raggiungere l’ingresso si attraversa un lungo viale ai tempi fiancheggiato da sfingi ricavate dalla pietra arenaria. Ne rimane una soltanto, e col volto sfregiato, un’offesa arrecata alla regina da parte dei suoi successori che cercarono di cancellarne la memoria senza tuttavia riuscirci del tutto. Il tempio infatti fu parzialmente distrutto dal figliastro Tuthmosis III, che la considerava un’usurpatrice. Alle devastazioni apportate anche in seguito, occorre aggiungere che nel periodo paleocristiano il complesso divenne addirittura un monastero.
Quello che vediamo ora è in grandissima parte frutto di un’attenta accuratissima ricostruzione, che è ancora in atto. Dal 1961 l’impresa è stata affidata ad egittologi polacchi; è una missione archeologica dell’Università di Varsavia che si occupa della restaurazione fedele del sito.
Sulla prima terrazza dove si affaccia un porticato, troneggia l’imponente statua della regina, che ha voluto essere raffigurata, come dicevo, con la barba, affinché le sembianze maschili le conferissero più autorità. Su questa terrazza è collocato il santuario dedicato al culto della divinità dei morti e dell’oltretomba, Anubi, rappresentato in un dipinto mentre riceve le offerte. Un altro bassorilievo sui muri del portico mostra Ra, dalla testa di falco, con in capo il disco solare.
La sala ipostila è coperta da un tetto che raffigura il cielo stellato, consueto ornamento dei soffitti dei templi che ne accentua la suggestione.
Altre colossali statue della regina in veste di Osiride accolgono i visitatori su una terrazza più alta. Fra le storie raffigurate sulle pareti dei portici viene dato risalto alla spedizione pacifica ordinata dalla faraona a Punt, in Somalia, impresa che consentì ai suoi guerrieri di esplorare la costa dell’Africa orientale. Scopo del viaggio era reperire le materie prime da cui ricavare i profumi cari al dio Amon, in particolare l’incenso che arrivava dal Sudan in Egitto per via carovaniera, ma in forma impura. I soldati sono rappresentati nelle pitture mentre tornano in patria a passo di marcia recando ciascuno come trofeo un albero d’incenso.
Sulla sinistra della terrazza si trova la cappella dedicata ad Hator, ornata da pilastri sormontati da capitelli con l’effigie tipica della dea: ovvero un volto di donna con corna e orecchie bovine.
Nell’ultimo piano è presente ancora un porticato che cinge una corte all’aperto destinata al culto solare. Da questa piattaforma si entra nel cuore del monumento, il sacrario rupestre dedicato ad Amon. Sul timpano del santuario, che sovrasta una porta affiancata da due statue osiriache (dalle sembianze di Osiride), compare una doppia scena: a destra Thutmosi III in ginocchio offre vino a Amon seduto in trono; a sinistra lo stesso fa la regina Hatshepsut, tempestata qui di martellate provocate dalla “damnatio memoriae” ordinata dal figliastro. Su una parete spicca una figura di Thot, il dio della sapienza, dalla testa di ibis.
La grandiosità del complesso rappresenta perfettamente l’importanza di Hatshepsut, la cui fama, condannata all’oblio dai successori, nonostante i loro sforzi, è sopraggiunta fino a noi. E questo si deve soprattutto all’acume di Champollion, il geniale decifratore dei geroglifici: egli, notando nella sua visita al tempio che a statue di forma virile era attribuito un nome di donna, si incuriosì e volle approfondire. Venne così alla luce la storia incredibile di questa regina energica e intraprendente.
Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto, Capitolo 3 (segue)