Nella parete interna dell’ingresso importanti rilievi rappresentano il trionfo di Ramsete III, che in segno di riconoscimento è preso per mano a destra da Horus e a sinistra da Amon. Sotto la scena compare il nome del re entro un cartiglio gigante: Yasser, la nostra guida, per dimostrarne la grandezza, ha infilato l’avambraccio nella cavità, sostenendo che è il più grande segno geroglifico di un faraone.
Il lato opposto dell’ingresso è fittamente decorato con vari simboli, fra cui si riconosce bene l’hankh, “la chiave della vita”, una croce sormontata da un cerchio: il soffio della vita che accompagnava l’individuo su questa terra come nell’aldilà. Rappresentava l’unione delle due divinità, Osiride ed Iside, ed era spesso raffigurato anche nei sarcofaghi.
Era interessante vagare con lo sguardo sugli altri particolari, ma essendo un’infinità non si potevano certo esaminare tutti con la dovuta attenzione. È ciò che più sgomenta della produzione artistica egizia, a mio avviso: si è davanti a uno stile tutto particolare, con moduli molto diversi dall’arte greco-romana con cui abbiamo più dimestichezza. È soprattutto l’estensione delle decorazioni che ricoprono fittamente ogni superficie dei monumenti a provocare quasi un senso di frustrazione.
Questo è in parte dovuto all’impossibilità di leggere i segni misteriosi, ma anche di interpretare le immagini nel modo dovuto, perché si tratta non solo di una scrittura, ma anche di una mitologia e di una storia ignote al profano. Le nozioni che ci fornisce la scuola, anche superiore, sugli Egizi, non raggiungono mai un approfondimento pari a quello che ci permette di capire la nostra civiltà. Solo l’interpretazione di un egittologo può mediare e far luce su alcuni aspetti, e solo pochi, dato che le basi di natura storica, mitologica e artistica, utili a comprendere questa cultura, sono talmente vaste che una visita di pochi giorni ne riesce a dare solo un’idea superficiale. Ma di questo ci si deve contentare.
La cosa che più colpisce rispetto all’arte classica, dove le decorazioni sono collocate sempre in spazi ben definiti, è il rivestimento totale dei monumenti egizi, che appaiono completamente scolpiti, dipinti, decorati con scritture, da artefici che, spinti da una sorta di horror vacui, non hanno lasciato nessuno spazio nudo.
Oltrepassata la soglia d’ingresso, si entra in una corte contornata sul lato sinistro da colonne papiriformi e sul lato destro da statue colossali, che rappresentano il faraone in veste di Osiride; purtroppo risultano molto danneggiate perché non sfuggirono alla smania iconoclasta dei primi cristiani.
Le decorazioni che riempiono completamente le pareti e le colonne del cortile illustrano le gesta del faraone contro i popoli invasori provenienti dal Mar Egeo. Sulla parete interna del primo pilone appare una grandiosa scena di battaglia dove il re è raffigurato nell’atto di guidare il cocchio trainato da un cavallo: la scena, di dimensioni colossali, mostra con efficacia lo slancio della corsa; mentre lo scontro è rappresentato sotto di lui da un movimentato groviglio di figurine, in cui i corpi dei guerrieri si intersecano con scudi lance, cavalli, come in un ricamo. Sulle altre pareti si susseguono senza soluzione scene di battaglie sempre contro i Popoli del Mare.
Con questa denominazione, ripresa proprio dai testi egizi che riportano quei lontani eventi, si intendono le popolazioni che tra il XIII e il XII sec. a.C. assalirono l’Egitto a più riprese, arrivando in diverse ondate dal Mar Egeo. Fu proprio Ramsete III a sconfiggerli definitivamente; i rilievi del tempio esaltano appunto le vittorie del re su quelle genti che, sbarcate dalle navi, invasero a bordo di carri la valle del Nilo tentandone la conquista. Ma il pericolo fu scongiurato grazie alla valentia del faraone che riuscì a sbaragliarli nel 1190 a.C. salvando così l’indipendenza del paese.
I rilievi del tempio raccontano lo sbarco di quei popoli e l’invasione del suolo egizio. I guerrieri si distinguono nella mischia per le fogge tipiche della loro nazionalità, e fra loro in particolare spiccano quelli con la treccia, i Shardana, ritenuti antenati dei Sardi, alleati con le genti dell’Egeo.
Più avanti è raffigurata una scena raccapricciante: i soldati offrono al faraone un cumulo di mani mozze. Avevo letto che i sovrani egizi non raggiungevano la crudeltà dei re mediorientali, assiri o babilonesi, per cui la spiegazione di Yasser mi ha lasciato sorpresa. Tornando dalla guerra i soldati, per dimostrare quanti nemici avevano ucciso, dovevano consegnarne al faraone le mani destre. Questa pratica singolare permetteva di operare un conteggio delle vittime. Pare che il sistema fosse stato importato in Egitto dagli Hyksos durante la loro dominazione.
Ma, si sa, ogni età ha i suoi imbroglioni, e anche allora c’era chi faceva il furbo andando a tagliare magari le mani a gente che non c’entrava niente con la battaglia, perfino ai connazionali, così per far numero e rimpolpare il premio che gli spettava.
Quando Ramsete III ne fu informato, per impedire l’inganno escogitò un sistema a dir poco sconcertante: siccome si sapeva bene che gli avversari non praticavano la circoncisione come era uso presso gli Egizi, ordinò che al posto delle mani fossero tagliati gli organi genitali. Ecco che nella scena seguente si potevano ben vedere guerrieri che depositavano mucchi di membri ai piedi del faraone per riceverne la ricompensa.
Girando fra le colonne e le pareti del cortile c’era da stupirsi soprattutto dei colori rimasti ancora così vivi a distanza di millenni. Sul soffitto spiccavano su sfondi azzurri le ampie ali della dea Nut, decoro fra i preferiti dagli artisti. La copertura dei templi, volendo significare il cielo, era in genere di colore azzurro; come pure erano colorate di azzurro le vesti delle divinità.
Oltrepassate le colonne del lato sinistro del cortile, una porta si apriva verso il palazzo del re. Non si trattava di una dimora fastosa, il faraone vi soggiornava con le sue donne durante le feste, quindi per brevi periodi. Si deve però rimarcare che neanche le residenze abituali facevano sfoggio di un’architettura pretenziosa, perché non erano costruite con materiali robusti; tutt’altro, si utilizzavano mattoni seccati al sole per le pareti, mentre i tetti e le colonne erano di legno; questo spiega perché non ne è praticamente rimasta traccia e si può averne un’idea solo da disegni e rilievi.
I faraoni non si curavano delle loro dimore: tutti protesi com’erano verso la sopravvivenza nell’aldilà, loro prima preoccupazione, una volta saliti al trono, era di costruirsi una tomba e un tempio duraturi e degni di nota.
La zona residenziale si trovava a fianco della sala ipostila, rimasta priva di copertura. Sebbene le colonne fossero monche, le basi imponenti risultavano di grande effetto: completamente istoriate, lasciavano immaginare ambienti di un’eleganza molto raffinata.
In questo palazzo il re si recava con le sue donne e si può immaginare che qui sia stata ordita la famosa “congiura dell’harem”, opera di una concubina che voleva imporre suo figlio come erede. Ramsete III, che aveva valorosamente combattuto e vinto schiere di nemici, subì un’inaspettata orrenda fine: fu assalito dai congiurati nella sua reggia e mutilato, tanto che gli imbalsamatori, nel ricomporre i pezzi, dovettero aggiungere delle protesi alla salma. Lo spezzettamento del suo corpo ricorda straordinariamente il mito di Osiride.
Il tempio funerario di Ramsete III era collegato al Nilo per mezzo di un canale, affinché potesse ricevere le barche delle processioni rituali nelle festività religiose. In Egitto gli dei si scambiavano le visite e il loro viaggio era occasione di grande festa per il popolo. L’usanza di portare le effigi divine in navigazione sul Nilo era una cerimonia molto sentita, per cui i templi erano attrezzati per ospitare in apposite camere le barche utilizzate per il trasporto delle statue.
Il regno di Ramsete III, nonostante le grandi vittorie riportate sui nemici, fu funestato da una profonda crisi economica che aveva provocato gravi tensioni sociali, e la sua morte violenta ne fu il tragico epilogo. Con lui si chiuse definitivamente un’epoca di splendore, iniziata fin dai tempi della XVIII dinastia con Tuthmosis III, quando l’Egitto, diventato una grande potenza politica ed economica, aveva affermato la sua egemonia nel Vicino Oriente.
Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto, Capitolo 5 (Segue)