ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – I colossi di Memnone – (capitolo 7 – segue) – vedi galleria fotografica

Mancava da visitare l’ultimo sito di quella mattinata travolgente, che ci aveva catapultati in un lampo dalle nostre banali monotone vite a un lontanissimo passato, risucchiandoci come in un vortice.
Ero curiosa di vedere i famosi Colossi di Memnone, ricordo di mitiche letture. Prima di partire ero andata a rileggermi “Le figlie dei Faraoni” di Emilio Salgari, fra i più cari romanzi della mia infanzia. La letteratura salgariana ha avuto particolare influenza nella mia formazione e certe immagini e racconti mi hanno così colpito da rimanere impressi nella mia mente a distanza di anni.
Ricordavo bene l’episodio in cui il protagonista, Mirinri, il futuro re, si reca davanti alla “statua parlante”, che secondo la tradizione emetteva un particolare suono davanti a chi fosse predestinato a salire sul trono dei faraoni. «Mirinri si era arrestato, guardando con visibile emozione i due colossi. Se egli era veramente un Faraone, il suono doveva udirsi; se rimaneva muto quale delusione!», così descrive Salgari il momento fatidico. Naturalmente davanti all’eroe in questione il Colosso “suonò” la sua approvazione.

A occidente del Nilo, ai bordi della Valle dei Re, due statue colossali identiche, anche se ognuna sfigurata a suo modo, spiccano nella pianura che fronteggiava Tebe, oggi Luxor. Il primo viaggiatore a descriverle fu Strabone, che le aveva udite emettere suoni in compagnia di Elio Gallo, allora governatore dell’Egitto e le aveva credute rappresentazione dell’eroe Memnone. In realtà raffiguravano un faraone della XVIII dinastia, Amenofi III, vissuto del XIV secolo, ma questo si scoprì solo molti secoli dopo.
I colossi stanno seduti, rivolti verso il Nilo e l’Oriente, le mani poggiate sulle ginocchia; ciononostante raggiungono la ragguardevole altezza di 18 metri, piattaforma compresa. Composti di blocchi di quarzite, si trovavano all’ingresso del tempio dedicato al faraone, di cui invece non è rimasto pressoché niente a causa del terreno alluvionale su cui sorgeva; senza contare l’utilizzo che ne fecero i re successivi che, come è accaduto per tanti monumenti romani, sfruttarono il materiale per nuove costruzioni. Ma ai suoi tempi, era l’edificio più grandioso dell’Egitto; neanche i più imponenti innalzati dopo, come il Ramesseum di Ramsete II o il Medinet Habu di Ramsete III, raggiunsero le sue dimensioni. Perfino il tempio di Karnak, nel periodo di Amenofi III, era inferiore per grandezza.

La pietra in cui furono scolpiti i Colossi proveniva dalle cave di Giza o della zona di Assuan, non si sa bene, comunque da luoghi ben lontani. La statua di sinistra, seppur parecchio danneggiata, è ancora oggi costituita da un solo pezzo di pietra, quello della sua costruzione originale, e mostra a fianco delle gambe due figure che rappresentano la moglie e la madre di Amenofi III. A differenza del suo gemello, il Colosso di destra invece era stato spezzato all’altezza del ventre da un terremoto, a cui aveva invece resistito l’altro, e il suono proveniva proprio da quella fessura.
Era questa appunto la “statua parlante” che incuriosiva e attraeva i visitatori del passato, greci e romani: al sorgere del giorno essa emetteva un suono particolare, un sibilo che ricordava il crepitio dello zolfo riscaldato dalla mano, per cui si diceva che all’alba “cantava”. I Greci, con la consueta fantasia con cui interpretarono gli elementi culturali della civiltà egizia, attribuirono il nome di Memnone alla statua, identificandola con un personaggio dell’Iliade ucciso da Achille in combattimento: si trattava secondo loro dell’eroe etiope figlio di Eos, la dea dell’aurora che, volto verso oriente, salutava il sorgere della madre col canto. Da notare che gli Etiopi erano considerati dagli Egizi con particolare rispetto, dato che dalla loro terra misteriosa proveniva l’acqua del Nilo fecondatore.

Malauguratamente lo zelo dell’imperatore romano Settimio Severo, che nel 199 d.C. fece aggiungere cinque massi di gres alla statua, che rischiava il crollo a causa di ulteriori sismi che l’avevano danneggiata, provocò la scomparsa del misterioso suono. In realtà non si trattava di alcunché di miracoloso: gli scienziati spiegano il fenomeno attribuendolo alla dilatazione della roccia causata dallo sbalzo di temperatura nel passaggio dal freddo della notte al caldo del giorno e viceversa.
Il tempio, che fu inaugurato quando il re era ancora in vita, divenne un importantissimo centro di culto, testimonianza della sua divinità in quanto incarnazione di Amon. Il faraone faceva da tramite fra Dio e l’Uomo ed era la manifestazione della “maat”, l’ Ordine Cosmico Naturale, ossia esercitava il potere sugli elementi della natura, soprattutto quelli che interessavano strettamente gli Egizi, vale a dire le Acque, le Piene e l’avvicendarsi delle Stagioni. Sebbene Amenofi III non si sia impegnato in imprese militari, godette di grande prestigio e la sua fama si deve al fatto che sotto di lui l’Egitto visse un periodo di prosperità e pace.

I Colossi costituirono fin dall’antichità un’attrazione turistica. Chi si spingeva in Egitto provenendo dalla Grecia o da Roma era smanioso di visitare il sito e di ascoltare il suono misterioso. Divenne una moda; diversi visitatori vollero anche lasciare traccia del loro passaggio incidendo firme e addirittura epigrammi sulle statue. Non lo facevano certo con l’intento di imbrattare per rivendicare ideologie rivoluzionarie come oggi, ma per semplice vanità: come dire “ci sono stato, sono passato di qua!” Insomma in mancanza dei selfie…
Ma li si può in fondo perdonare, dato che allora non era ancora nata una coscienza archeologica. Mentre agli imbrattatori odierni, cui la scuola deve aver cercato, evidentemente invano, di inculcare il rispetto per i beni culturali, non si può certo perdonare il vandalismo.
Il fascino della statua parlante ha comunque attraversato i secoli, anzi i millenni, offrendo lo spunto anche a poeti più moderni, come Pascoli, che nei Poemi conviviali ha inserito una poesia, Le Mnemonidi, dedicata all’eroe etiope, da cui traggo questi versi:
«Or egli è pietra, e ben che nera pietra,
il figlio dell’Aurora ha le sue pene,
ché quando io sorgo, e piango, ei dalle vene
rivibra un pianto come suon di cetra… »

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto (7), Continua.

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