Sulla via del ritorno dalla Valle dei Re ho posto più attenzione all’ambiente: la strada costeggiava un canale che scorreva ai bordi di vaste estensioni tappezzate di coltivazioni di canna da zucchero. Essendo tempo di raccolta si vedevano i contadini intenti al lavoro nei campi o a trasportare, affastellati su carri trainati dagli asini, enormi fasci di canne.
In cielo navigavano le mongolfiere che consentivano ai turisti di ammirare la valle e il fiume che scorreva tagliando l’oasi in due bande. Si poteva discernere bene il confine che separava l’abitato e le colture dalle terre aride. La linea di demarcazione netta che distingueva l’oasi dal deserto che incombeva ai lati, doveva sembrare da lassù un fronte d’assedio difeso dall’uomo a salvaguardia delle opere che con tanta cura e fatica aveva prodotto nel corso di millenni.
Siamo tornati a bordo dove, dopo la notte brevissima e la mattinata intensamente lunga, ci aspettava un completo relax. Sarebbe cominciata la navigazione e avrei provato l’esperienza nuova e unica di risalire la corrente del fiume mitico, carico di reminiscenze storiche e letterarie.
Da Luxor la nave è salpata in direzione sud fendendo le acque che scorrevano al contrario. Appena si è staccata dalla banchina, è cominciato il viaggio nella storia. Paesaggi noti attraverso foto e film si spiegavano finalmente nella loro autenticità, e la sensazione di entrare in zone per un verso familiari, ma mai penetrate di persona, completava in un certo senso le emozioni suscitate dalle opere d’arte che avevano riempito la lunga mattina. Si realizzava l’approccio con il Nilo, il “responsabile” di quelle meraviglie.
Dopo un necessario riposo in cabina, dove avevo trovato sul letto un gentile omaggio del cameriere, un asciugamano disposto a forma di cigno, prima scultura di stoffa di una serie che mi avrebbe divertito durante tutto il viaggio con spiritose varianti, sono salita sul ponte per prendere dimestichezza con l’ambiente e scoprire il paesaggio circostante.
La navigazione sul Nilo penso sia uno dei più antichi e collaudati “pacchetti” di viaggio. I passeggeri si godono il tempo ciascuno a suo modo: c’è chi legge comodamente seduto in poltrona gettando ogni tanto lo sguardo attorno, interrompendo la lettura se capita di poter osservare qualcosa di curioso sulle rive o sull’acqua, c’è chi conversa coi vicini, chi gioca a carte, chi rimane steso al sole in cerca di un’abbronzatura che susciti invidia al ritorno, chi preferisce contemplare il tutto mentre sorbisce una bevanda, chi pratica una ginnastica rilassante, chi gironzola per il ponte in cerca di angolature interessanti per scattare foto come la sottoscritta.
Il fiume scorre placido, per cui la nave controcorrente non fa fatica, ma avanza calma e sicura e man mano che procede, le rive trascorrono ai lati come in un caleidoscopio: immagini varie e monotone insieme, come tante variazioni su tema.
La striscia di verde lambita dal fiume a occidente appariva più abitata; si susseguivano piccoli centri, formati da basse costruzioni di mattoni che non osservavano nessuno stile in particolare se non il capriccio del costruttore. Le intravedevi dietro gli eucalipti, sovrastate da ciuffi di palme, protette dalla sagoma svettante di un minareto.
Verso le cinque il silenzio, fino allora accompagnato solo dal mormorio leggero del fiume, dal tintinnio dei bicchieri o dalle esclamazioni dei passeggeri, è stato rotto dal canto di un muezzin. Stavamo costeggiando un villaggio quando, improvvisa, si è levata la preghiera del pomeriggio, che ci ha accompagnato come sottofondo musicale per un bel tratto echeggiando dall’una all’altra sponda.
Le scarpate della costa occidentale erano formate da brevi spiagge dove la sabbia si mescolava ai sassi; offrivano spazio alle barche tirate in secca e ai giochi dei bambini, che si avventuravano fin dentro l’acqua per divertirsi a sguazzare. Qualche adulto pescava.
In certi punti grappoli di case si affacciavano direttamente sul fiume. Assiepate com’erano formavano quasi una muraglia crivellata dalle finestre e decorata qua e là da piccole terrazze da cui pendevano bucati multicolori. Le pareti esterne erano lasciate senza rivestimento, solo quelle dei balconi erano intonacate a tinte vivaci: celeste, rosso, pervinca.
La massa d’acqua non scorreva sempre unita perché a volte doveva diramarsi per aggirare uno o più isolotti emergenti. Alcuni di questi erano abbastanza larghi da ospitare orti, altri si limitavano a strisce di terra rivestite di tappeti erbosi dove pascolavano i bufali. Alcune isole racchiudevano bacini d’acqua contornati da canne, formando così delle paludi frequentate da uccelli e pesci. Mi sono ricordata delle scene di caccia e pesca immortalate nei dipinti che avevo ammirato nei libri d’arte: erano attività praticate per necessità dai poveri, per sport dai ricchi, perfino dai faraoni.
Naturalmente non eravamo soli nella navigazione, incrociavamo o ci superavano molti battelli come il nostro, navi più piccole e feluche, e il traffico era intenso. Ormai, finita la pandemia che aveva interrotto il flusso dei turisti, era ripreso il viavai consueto e alla soddisfazione di poter ammirare quello spettacolo si aggiungeva un senso di liberazione da quel periodo angoscioso. La vita riprendeva a scorrere come le acque del fiume che mai aveva invece interrotto il suo corso.
Nei centri urbani più grandi le sponde erano rafforzate con scarpate di cemento e oltre ai minareti, capitava che si vedesse spuntare il campanile di una chiesa cristiana, copta ovviamente, riconoscibile dalla croce collocata in cima. Questo particolare non è da poco. Dà un senso di sicurezza in un paese islamico. Perché significa che nonostante le istanze fondamentaliste che serpeggiano ovunque nei paesi mussulmani, quello stato fa in modo di garantire una convivenza pacifica, o perlomeno ci prova.
Dove cessava l’abitato finivano anche gli orti, mentre i boschi si infittivano arrivando quasi a lambire il fiume. Solo uno stretto sentiero sulla riva consentiva di transitare a pedoni e mulattieri. Palme da datteri rigogliose riempivano la macchia sovrastando acacie, sicomori, jacaranda; a volte prevalevano completamente soffocando i cespugli del sottobosco. La striscia di verde si rifletteva come un lunghissimo nastro nelle acque, mentre il contorno sfrangiato delle palme tracciava una linea di separazione aspra e sinuosa fra l’oasi e la zona arida confinante che si perdeva all’orizzonte fino alle alture avvolte di foschia che occupavano il deserto occidentale.
Mentre procedevamo mi divertivo a leggere i nomi esotici delle navi-crociera che incontravamo, Al Kahila, Jaz Celebrity, Semiramis, Nefertiti. La nostra si chiamava Al Mahrusa, parola che – ho scoperto al ritorno su un libro di Magdi – significa “La ben custodita”, e portava il nome dello yacht a bordo del quale re Faruq partì in esilio da Alessandria in seguito al colpo di stato dei militari nel luglio del 1952, guarda caso lo stesso mese e anno della mia nascita.
All’improvviso è comparsa una barchetta così fragile che non si capiva come facesse a sostenere i due uomini a bordo. Tuttavia si è accostata senza tema a una nave che in quel mentre incrociavamo e che procedeva anche a una discreta velocità. I due barcaioli erano commercianti che offrivano navigando la loro merce ai turisti. Mentre il rematore cercava di governare l’imbarcazione per tenere il passo con la nave evitando nel contempo disastri, e lo faceva con maestria, l’altro si è messo a imbonire i viaggiatori, sciorinando una tovaglia. Ma nessuno, purtroppo per lui, lo ha degnato di attenzione.
La sera stava avanzando e i colori, che la luce forte del giorno aveva reso sbiaditi, si sono accesi ad oriente dove, oltre la fascia della vegetazione, la schiera dei monti aveva assunto una tinta ocra sempre più rossastra che ne metteva in evidenza i solchi e gli anfratti. In quel tratto le pareti di roccia incombevano sull’oasi ridotta a una sottilissima striscia verde.
In un punto della costa ho avvistato un gruppo di persone accovacciate sulla stentata erba della riva. Vestite con gli abiti consueti ereditati da antenati vissuti al tempo dei tempi, tenevano in mano i telefonini. Sorprese dal passaggio della nave, un bambino ha cominciato a sbracciarsi in segno di saluto, mentre gli adulti, divertiti dallo spettacolo, hanno preso a fotografarla.
La faccenda mi ha fatto sorridere, la situazione pareva rovesciata: i turisti a caccia di scatti insoliti, erano diventati loro oggetto di interesse. Quell’immagine singolare nel paese dei faraoni l’ho trovata lì per lì un controsenso, un elemento estraneo a quanto ci si aspetterebbe in una contrada sperduta del Nilo, insomma mi ha colpito come un’assurdità. Ma la mia è stata una sensazione suprematista, lo riconosco. Perché mai non dovrebbero avvalersi anche lì di un mezzo di comunicazione così utile, di uno strumento di libertà finalmente a portata di mano dei più? Solo per non deludere la nostra smania di turismo esotico?
Mentre il sole stava calando dalla parte opposta del gruppo in questione, infuocando l’orizzonte, improvvisamente, a ravvivare la fine della giornata con una nota spettacolare, è apparso in cielo uno stormo di uccelli: una moltitudine di oche selvatiche transitavano sulle nostre teste dirette verso il settentrione. Volavano nella classica formazione a V, il collo proteso in avanti, il corpo in linea orizzontale, le ali che battevano ritmiche, seguendo il caposquadra. Quegli uccelli migratori parevano i re dell’aria. Affascinata dallo spettacolo, sono rimasta a bocca aperta ad osservarli, mentre mi venivano in mente i versi di Carducci che descrivevano perfettamente la mia impressione: li vedevo “com’esuli pensieri, nel vespero migrar”, finché sono spariti all’orizzonte.
La navigazione è proseguita fino a notte fonda. Era già calato completamente il buio, quando abbiamo raggiunto la chiusa di Esna. Eravamo preceduti da altri battelli, per cui occorreva aspettare il nostro turno per passare. Finalmente la Mahrusa si è infilata nel canale che taglia il ponte-diga, costruito agli inizi del ‘900 dagli inglesi allo scopo di irrigare il territorio.
Mentre dal ponte osservavo lo spettacolo, mi è venuto in mente di inviare qualche foto a Magdi, che aveva espresso il desiderio di ricevere qualche immagine della sua terra. Non potevo non comunicargli brevemente le mie prime impressioni. Mi ha risposto immediatamente: dove sei? Alla Chiusa di Esna. Buonanotte.
Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto, Capitolo 8, Il placido Nilo (segue)