DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “L’orologio di Arafat e il campo di addestramento palestinese”

La guerriglia palestinese in Siria, Libano e Giordania non è clandestina. La possibilità di visitare i campi di addestramento è libera: se i responsabili delle attività di preparazione e di supervisione delle esercitazioni accettano, è consentita la visita da parte di un eventuale osservatore esterno.

E così Moravia si reca a Damasco, città ritenuta abitualmente pacifica, per incontrare Yasser Arafat, capo della guerriglia palestinese. La città appare agli occhi dello scrittore piena di gente e di automobili che vanno e che vengono, con bambini che popolano le strade, piena di vita come al solito. La guerriglia palestinese permette di evidenziare paradossi di questo tipo: organizzazioni militari votate alla guerra che si annidano all’interno di paesi apparentemente tranquilli.

Moravia riferisce di aver atteso due giorni interi prima di sapere se Arafat era presente o meno e se era disposto a incontrarlo. Nessuno gli fa sapere nulla. Nessuno è disposto a rivelare i movimenti del capo per l’enorme pericolo che comporta il fatto di parlare di lui: “molti lo cercano e molti lo vorrebbero morto”.

Quando finalmente allo scrittore viene acconsentito di introdursi all’interno del campo palestinese, egli viene condotto in macchina presso un’abitazione qualunque, in un quartiere qualsiasi della città. In una stanza attorno a un ampio tavolo è riunito il consiglio generale delle operazioni armate. In una stanza attigua rispetto a questa, Moravia finalmente si trova di fronte ad Arafat che gli si presenta seduto dietro a una scrivania.

Quello che si prospetta a Moravia è un incontro di tipo “audiovisivo”, cioè un incontro in cui più che sottoporre Arafat ad una vera e propria intervista, Moravia si limiterà a osservarlo e a parlargli. Arafat preferisce, infatti, replicare in un secondo tempo alle domande postegli dal giornalista italiano, facendogli eventualmente recapitare le risposte direttamente a Roma, per iscritto.

La singolarità di quest’approccio consente a Moravia di amplificare la stimolazione della percezione visiva e di allargare i tempi dedicati all’osservazione del personaggio che ha di fronte. Uomo non alto, Arafat ha le fattezze tipiche di un uomo arabo. «Pare uscito dritto dritto dalle pagine delle Mille e una notte oppure di Arabia deserta di Doughty», sostiene lo scrittore italiano il quale, del capo palestinese, sottolinea l’affabilità e l’apertura alla comunicazione.

Viene dal fronte Arafat, non si lava da mesi e ha indosso una «tenuta “di fatica”: pantalonacci grigioverdi, giacca a vento di cuoio, pullover grigio, maglia turchina. Non ha barba; ma è un pezzo che non si rade».

Numerosi sono i particolari sui quali si concentra l’attenzione dell’intervistatore. Addosso al suo interlocutore egli nota la presenza della «kufia, o velo di cui gli arabi si avvolgono il capo per proteggersi dal vento del deserto». Non ha i celebri occhiali neri e gli occhi paiono con un’espressione un po’ velata, “edificante”, sostiene Moravia, “vocata”.

Il volto di Arafat appare pieno di disarmonie e di sproporzioni ma possiede anche un nonsoché di carismatico. Il capo militare sembra avere un’aria profetica, da uomo religioso più che da uomo politico. Ciò che lo contraddistingue in particolare rispetto agli altri membri del comitato centrale lì presenti, tutti egualmente seri e di una compostezza in volto che non tradisce emozioni, è proprio questo carattere “vocato”, carismatico, che egli ha in più rispetto a loro.

Si tratta di una qualità che Arafat mantiene anche quando si apre in un sorriso che, durante la conversazione, viene diverse volte riproposto agli occhi dell’intervistatore. Moravia continua a notare, del suo interlocutore, quest’aria profetica che, insieme al tono con cui parla, gli fornisce una «sicurezza così assoluta da far l’impressione, specie in questo momento di grande difficoltà per la guerriglia, di oltrepassare ogni razionalità e di sfiorare lo slancio mistico».

È allora che Moravia si rende finalmente conto del vantaggio vero che ha per Arafat di aver accettato la visita dello scrittore italiano presso il quartier generale palestinese. Lo scopo del capo militare è infatti proprio quello di mostrarsi, di farsi vedere, di dare segno tangibile e sensoriale della propria presenza.

«[Arafat] ha voluto soltanto “apparirmi”» dice Moravia. «Il suo messaggio è la propria persona. Così si spiega il modo di vestire, il velo svolazzante. Così si spiega pure il frequente sorriso. I compagni di Arafat sono seri, scuri, forse sospettosi. Arafat sorride perché è il capo. I capi sanno sorridere; i gregari, no». Ed ecco spiegata anche la scelta di non rispondere alle domande dell’intervistatore. Sarebbe stato superfluo.

La sua acuta attenzione permette a Moravia di penetrare uno dei meccanismi più infidi attraverso cui viene attuata l’azione di convincimento comunicativo da parte dell’islam. Il terrorismo e le azioni di guerriglia si alimentano della dimensione dell’immagine che agisce come agente propulsore dell’azione persuasiva e di espansione pubblicitaria del messaggio da dare.

Il potere agisce attraverso l’istintiva comunicatività del senso della vista e si nutre della forza con cui l’immagine si imprime nella memoria. La figura del capo carismatico fa da filtro che convoglia su di sé l’azione di persuasione attuata nei riguardi del grande pubblico.

Si tratta, è vero, di modalità di approccio e di tecniche comunicative di tipo elementare. Ma la semplicità è spesso la via più facilmente percorribile e forse, a volte, quella meno scontata da seguire.

Il giorno dopo rispetto a quello dell’incontro con Arafat, Moravia si reca presso un campo di addestramento palestinese subito fuori rispetto alla città di Damasco. Lì viene a contatto con un gruppo di ragazzi dai quattordici ai sedici anni di età che svolgono esercizi impugnando mitra o fronteggiandosi in corpo a corpo selvaggi, durante i quali si atterrano o usano tecniche finalizzate a uccidere il proprio avversario.

Nei pressi del campo si sentono degli spari e prima di entrare all’interno di una baracca assieme ai ragazzi allo scopo di interrogarli, fanno sapere a Moravia che lì vicino si stanno svolgendo i funerali di un “fedayn”, cioè di un devoto caduto il giorno prima durante un’azione di guerriglia.

Una volta all’interno della baracca, lo scrittore si trova di fronte ai ragazzi raccoltisi attorno a lui e seduti su delle panche. A quel punto egli sente il bisogno di trovare il modo di rivolgersi a loro toccando i tasti giusti.

Mosso dal più opportuno e fortunato degli slanci, egli comincia a parlare e formula la seguente domanda: “Che sentimento vi ispirano questi colpi di mitra in onore del vostro compagno morto?” «Tutti quei ragazzi hanno la risposta pronta, non da oggi, da sempre. Ne indico via via tre o quattro e, infatti, tutti rispondono: “Quegli spari mi ispirano il desiderio di imitarlo, di morire anche noi per la causa palestinese”».

La considerazione che fa Moravia subito dopo è che «nel fervore militare palestinese confluisce l’antica bellicosa mentalità araba di sempre». Morire felici per la stessa causa per la quale è morto un compagno non fa del compagno morto soltanto un eroe. Per l’islam la morte è il motivo stesso che muove alla guerra. Secondo il credo islamico non si combatte per una conquista da ottenere e mantenere in vita. Ciò che spinge i terroristi ad agire è l’amore per la morte, non per la vita. Si può forse dire che la cultura islamica stabilisca che finanche il senso stesso dell’agire in vita coincida con il dare e darsi la morte. È in tal senso che i ragazzi vengono addestrati allo scopo di trasformarli in robot della morte.

Il significato dell’esistenza è quello che la vita di un musulmano assume con la jihad, la guerra santa, che si sostanzia nell’atto di uccisione e di suicidio, accompagnato dall’urlo “Allah akbar!” con cui i terroristi islamici commettono i loro crimini, realizzando alla lettera ciò che prescrive il Corano e ciò che ha detto e ha fatto Maometto.

Questo episodio è narrato da Moravia in un suo reportage intitolato L’orologio di Arafat e pubblicato sull’Espresso il 14 marzo 1971. Molte dinamiche che si ripetono da sempre nei rapporti tra l’Occidente e il mondo islamico, anche oggi, possono essere perfettamente sovrapponibili a questo episodio. Non è una novità. Molta parte del mondo occidentale continua a non capire quanto tutto ciò rappresenti una verità incontrovertibile.

2 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “L’orologio di Arafat e il campo di addestramento palestinese”

  1. Con questo ulteriore articolo di Davide a commento dei viaggi di Moravia nei paesi arabi possiamo capire la lentezza del mondo arabo chiuso ad ogni progresso e proteso unicamente ad una visione dell’insegnamento coranico volto a preferire la morte più che esaltare la vita, a sopraffare il nemico senza costruire una propria civiltà. Se pensiamo che sin dai primi anni ’70 del secolo scorso si organizzano e si perfezionano le formazioni militari con numerosi campi di addestramento che includevano molti ragazzi indottrinati al martirio, possiamo capire perché non si arrivati ad una pace o ad una pacifica convivenza tra israeliani ed arabi. Protagonista di questo atteggiamento aggressivo e promotore del terrorismo internazionale è stato Arafat che quindi considero un terrorista che ha strumentalizzato la causa del suo popolo che spregiudicatamente e apparentemente promuoveva arricchendosi e lasciando con una ricca eredità la vedova che vive agiatamente in Francia mentre i palestinesi vivevano e vivono nella miseria e nell’odio verso gli ebrei.

    1. Grazie del commento, Gaetano. Il mio proposito era, in effetti, proprio quello di far percepire quanto la storia sia in grado di rivelare con chiarezza il ripetersi di dinamiche che sarebbe facile individuare anche oggi. Gran parte dell’opinione pubblica rivela quanto l’istinto suicidario occidentale coincida spesso con una stupida cecità ideologizzata che si rivela nelle posizioni di molti. Fare chiarezza senza partire da preconcetti è l’unica chiave accettabile per approcciarsi con coscienza alla lettura dei fatti.

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