ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – Salviamo i templi di Abu Simbel! – (capitolo 19) – vedi galleria fotografica

Ero lì, per la prima volta, davanti alle statue che troneggiavano all’ingresso dei templi, le stesse che mi avevano suscitato tanta emozione da bambina. Mi erano note da quando, agli inizi degli anni ‘60, partì la campagna per il salvataggio dei monumenti: allora stampa, televisioni e media vari, si attivarono per informare l’opinione pubblica mondiale del rischio certo che i templi correvano di essere sommersi dalle acque del futuro lago che la nuova diga di Assuan avrebbe formato.

Se ne parlò ovunque, a scuola, fra gli amici, in famiglia. La propaganda intensa determinò uno slancio generoso da parte di tantissime nazioni, perché la civiltà egizia è da sempre considerata patrimonio dell’umanità. L’Unesco in particolare lanciò un appello affinché fossero presentati progetti volti a risolvere il problema: “Salviamo i templi di Abu Simbel” fu il monito che, accolto dalle più importanti imprese di costruzioni del mondo, portò all’elaborazione di varie ipotesi. La campagna di salvataggio coinvolse ben 113 paesi.

Ma su quella spianata dominata dalle rupi ero doppiamente emozionata, perché sapevo che l’operazione dello spostamento, considerata mission impossible, era potuta avvenire soprattutto grazie alla perizia di professionisti italiani e in particolare dell’Impregilo, l’impresa per cui avevo lavorato in Venezuela.

Quando il governo egiziano, preoccupato per la perdita inevitabile dei monumenti, cominciò a valutare possibili soluzioni, decise di affidare la sovrintendenza dei lavori all’architetto piacentino Piero Gazzola, che era specializzato in restauri e aveva al suo attivo la ricostruzione del ponte Pietra di Verona, distrutto dai bombardamenti dell’ultima guerra. Pertanto Gazzola fu nominato Consulente del Governo Egiziano dal 1959 al 1961 ed ebbe anche l’incarico di Capo Missione UNESCO in Egitto e Sudan per studiare il modo di salvare i monumenti.

Fra tutti i progetti presentati per lo spostamento dei templi fu scelto quello egizio-svedese, che prevedeva di utilizzare le tecniche adottate nelle cave di marmo di Carrara. Le imprese vincitrici costituirono quindi una joint venture che riunì compagnie di alcuni paesi: Francia, Germania, Svezia. Anche l’Italia partecipò con l’Impregilo.

A quel punto lo spostamento dei templi rupestri del faraone Ramsete II sarebbe stato possibile grazie a un lavoro imponente: i colossi sarebbero stati tagliati in blocchi e ricomposti più in alto, in un’area al sicuro dall’inondazione.

Ma qualcuno, prima ancora che fossero presentati i progetti, aveva già ipotizzato quel sistema. Quando ho ripreso i contatti dopo molti anni con i lavoratori dei cantieri nel mondo, nello scambio di ricordi ed esperienze, alcuni di noi si sono rammentati che esisteva addirittura un storia comparsa allora su Topolino che, adattata alle dinamiche di Paperone e dei nipoti, aveva come tema proprio il trasferimento dei templi. Il fumetto, intitolato “Paperino e il colosso del Nilo” aveva fatto presa evidentemente sulle nostre menti infantili. Siccome la faccenda mi incuriosiva, ho voluto indagare e sono riuscita a ricostruire alcuni aspetti interessanti e poco noti che la riguardano.

La storia era stata pubblicata nel luglio del 1961, proprio nel periodo in cui si dibatteva la questione. Il grande fumettista veneziano Romano Scarpa si era divertito a creare una storia in cui Paperino e i nipotini Qui Quo e Qua, dovendo cercare l’uranio che pensavano si trovasse proprio sotto la statua del faraone Ramsete II, avevano progettato di spostarla dal suo sito. Fra le soluzioni proposte da Archimede Pitagorico, Paperone optò per quella che prevedeva di smontare il monumento, numerarne i pezzi e ricostruirlo altrove.

Spiegò Scarpa in un’intervista: “la mia era solo un’ipotesi fantastica, senza pretese scientifiche, ovviamente. Soltanto un paio d’anni dopo ho saputo che quella mia idea era stata ripresa da un grande quotidiano, in un articolo intitolato ‘Walt Disney salva il monumento della Nubia’ “. Dunque la fantasia del disegnatore aveva anticipato il progetto che tecnici di altissimo livello avrebbero realizzato anni dopo.

I lavori dello smontaggio e rimontaggio dei templi richiesero cinque anni. L’impresa, iniziata nel 1964, fu compiuta nel 1968. Grazie all’idea geniale arrivata dall’Italia, la parete scolpita fu tagliata in più di 1.000 blocchi del peso di 20-30 tonnellate, che furono numerati e ricomposti in una zona alta al sicuro dall’inondazione.

Furono impiegati oltre 3000 uomini, tonnellate di materiali e uno sforzo tecnologico senza precedenti nella storia dell’ingegneria. Per imbragare i blocchi vennero usate speciali reti, anch’esse italiane. L’impresa definibile, è il caso di dire, “faraonica”, fu resa possibile soprattutto grazie all’abilità, dovuta all’esperienza secolare, dei cavatori di marmo di Carrara e di Brescia che diressero l’operazione.

I cavatori di Carrara, guidati dagli scultori Nardo Dunchi e Carlo Andrei, furono indispensabili per la corretta esecuzione dei lavori: per cinque anni misero la loro esperienza al servizio delle migliaia di operai e tecnici giunti in Egitto da ogni parte del mondo. I ‘buscaiol’ carraresi, con la loro maestria ed astuzia, evitarono perfino che la testa di Ramsete II subisse dei danneggiamenti durante il trasporto. Si accorsero infatti di un errore di calcolo commesso dagli ingegneri svedesi, che avrebbe potuto causare lo sbriciolamento della statua. Gli svedesi, all’inizio scettici, accettarono comunque di ripetere le operazioni e si accorsero con stupore di aver sbagliato.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – Capitolo 19 – Salviamo i templi di Abu Simbel! (continua)

Lascia un commento

error: Questo contenuto è protetto