ISABELLA MECARELLI: “VIAGGIO IN EGITTO – Philae – (capitolo 24) – vedi galleria fotografica

L’isola di Philae è legata al culto di Iside. Vi sorgeva un complesso di templi dedicati alla dea, anche questo destinato ad essere sommerso. Per il suo salvataggio le istituzioni si attivarono decidendone il trasporto su una terra più alta, cui fu data la forma dell’isola originale.

I templi erano del resto già stati danneggiati dalla prima diga costruita dagli inglesi nel 1905: inondati in inverno dalla piena, emergevano soltanto nella stagione estiva. L’amico Vittorio Parigi, che nel ’62 capitò a Philae proprio in estate, ebbe la ventura di poterli visitarli ancora nella loro collocazione originale.

Prima di partire per la crociera mi è capitato per puro caso di vedere in tv un film degli anni ’50, “La valle dei re”, girato proprio in Egitto. Una scena mostrava gli attori mentre navigavano in quel tratto di fiume dove era visibile il tempio sommerso per circa un terzo, da cui si deduce che le riprese furono fatte in inverno. Quel film ha un valore storico documentario anche per le scene ambientate nel sito originario di Abu Simbel, dove si vede il protagonista arrampicarsi sul colosso alla ricerca di un tesoro.

A proposito del salvataggio dei templi di Philae, ancora una volta dobbiamo tirare in ballo i nostri connazionali, che intervennero su richiesta dell’UNESCO: furono due importanti imprese incaricate dall’IRI, le società Condotte Acque di Roma e la Mazzi Estero di Verona a collaborare nell’operazione sfruttando una tecnica simile a quella già sperimentata con successo ad Abu Simbel. Stavolta si dovette addirittura costruire una diga intorno all’isola per farla riemergere dalle acque; ciò permise lo smontaggio dei monumenti, che furono poi trasferiti nella vicina isola di Agilka, la cui conformazione era stata modificata, facendo saltare con la dinamite tonnellate di roccia, affinché assumesse la forma di uccello (simbolo di Iside) dell’isola originale. I lavori, iniziati nel 1975 terminarono nel 1980.

Sempre a proposito di Philae dobbiamo ancora una volta citare il nostro Belzoni che si cimentò in un’altra delle sue imprese, stavolta davvero colossale, ovvero il trasporto fino ad Alessandria dell’obelisco intatto che si ergeva nell’isola, gemello di un altro andato in frantumi. Torniamo con lui indietro nel tempo, all’epoca in cui francesi e inglesi si contendevano le zone di influenza in Egitto per accaparrarsi reperti giudicati preziosi soprattutto dal punto di vista archeologico. Entrambi i gruppi rivali facevano a gara per ottenere i “firman”, le autorizzazioni necessarie all’esportazione di oggetti dal paese, e bisogna dire che il governatore ottomano Mehemet Alì li rilasciava volentieri, ovviamente dietro compenso.

Il motivo di tanta generosità era che a lui interessavano solo finanziamenti per le opere necessarie allo sviluppo economico del paese, mentre non faceva nessun conto delle antichità. Questo in linea con la particolare visione dell’islam riguardo alla storia: tutto ciò che riguarda il passato prima dell’avvento del Profeta, non è degno di considerazione e i cimeli antichi men che meno.

Tanti tesori archeologici poterono così uscire legalmente dall’Egitto. Certo verrebbe da fare un paragone con i furti dei ladri che da sempre avevano saccheggiato la valle dei Re e le piramidi, ma riflettendoci bene non è la stessa cosa, perché in realtà la fuga di quei beni in quest’ultimo caso significò in generale la loro salvezza. Ora giacciono ben protetti nei più importanti musei del mondo, e possono essere ammirati da milioni di persone, mentre nel luogo di origine gli sarebbe potuta capitare una sorte ben misera, data l’incuria verso le antichità dimostrata allora dal governo ottomano. Ah! Il fardello dell’uomo bianco…

Le imprese e le scoperte di Belzoni si inseriscono quindi in un contesto storico ben preciso, il momento in cui faceva i primi passi la neonata egittologia; un’epoca di trapasso fra le ricerche condotte con metodi ancora rudimentali e l’avvento di un’archeologia più seria e scientifica.

L’OBELISCO DI PHILAE

L’obelisco di File, che risale al 118 a.C., ha una storia curiosa e nel contempo emblematica, che permette di capire i meccanismi della ricerca e le dinamiche dei rapporti fra le persone interessate ai reperti egizi.

L’esploratore ed archeologo inglese William John Bankes, un privato in questo caso, nel 1816 aveva acquistato l’obelisco, perché interessato a un importante aspetto: il monumento recava incise due iscrizioni in alfabeti diversi, geroglifico e greco antico. Addirittura in due segni geroglifici l’egittologo aveva individuato i nomi di Tolomeo e Cleopatra. Poteva essere una chiave per capire il significato della scrittura misteriosa che proprio in quegli anni il francese Champollion stava cercando accanitamente di decifrare. Appena pochi anni dopo infatti, nel 1822, anche grazie a quest’opera, non solo alla stele di Rosetta, lo studioso ci sarebbe riuscito, ma di lui parlerò in seguito.

Era stato lo stesso Belzoni a notare quell’obelisco di sette metri e a farlo presente al console generale inglese, Salt, nel 1816. Ma già il console Drovetti, un italiano al servizio della Francia, si era fatto avanti per comprarlo. Quando però si rese conto che gli abitanti di Assuan lo avevano imbrogliato facendogli credere che nell’acquisto del monumento fosse compreso il trasporto, a quel punto ci rinunciò.

Fu allora Bankes a intervenire per entrarne in possesso, offrendo di pagare lui le spese del trasporto. Soffiò così il pezzo all’avversario e affidò appunto a Belzoni l’operazione del trasporto fino ad Alessandria, da cui sarebbe stato imbarcato alla volta dell’Inghilterra.

L’impresa, come era presumibile, si rivelò ardua. L’obelisco durante il trasferimento subì varie vicissitudini. Innanzitutto finì nel fiume e dovette essere recuperato con un’operazione estremamente difficoltosa, che il Nostro seppe tuttavia guidare con maestria, facendo calare dei blocchi di pietra nel fondale in modo che i palombari, utilizzando delle leve, in soli due giorni riuscirono a riportarlo in superficie.

Poco oltre si dovette affrontare un’altra difficoltà: il superamento della prima delle cateratte del Nilo. Si sa che in quei tratti le acque sono poco profonde e quindi non navigabili. Ma Belzoni risolse il problema applicando delle funi all’obelisco, in modo che poté essere trascinato dalle rive.

Dopodiché seguì il trasporto via mare fino in Inghilterra, dato che Bankes intendeva collocarlo nella sua villa di Kingston Lacy nel Dorset, dove tuttora si può ammirare.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – capitolo 24 (continua)

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