ISABELLA MECARELLI – “VIAGGIO IN EGITTO – Coccodrilli imbalsamati – (capitolo 32) – vedi galleria fotografica

La visita dei templi gemelli di Kom Ombo offriva una particolarità unica: un museo dedicato ai coccodrilli. Animali mummificati millenni fa, conservati accuratamente in grandi teche di vetro, erano esposti alla curiosità dei visitatori, e costituivano evidentemente una ghiotta attrazione, visto che il luogo era gremito di scolaresche accompagnate da insegnanti donne, rigorosamente velate, che conducevano i piccoli alunni alla scoperta della loro storia.

Circa 300 esemplari sono stati recuperati in situ dalle tombe che i sacerdoti usavano allestire per conservare gli animali sacri al dio Sobek. Una volta sottoposti all’operazione della mummificazione, cui si aggiungeva magari l’inserimento di pietre preziose al posto di occhi e denti, erano collocati entro sarcofagi, usando sistemi analoghi alla conservazione dei cadaveri umani.

I bestioni, lunghi fino a cinque metri, adagiati uno a fianco all’altro su un letto di sabbia, incutevano ancora soggezione, sebbene privi di vita, per giunta chiusi entro un’enorme bara di vetro. Parevano appostati, intenti alla preda. In teche più piccole si potevano osservare esemplari di tombe munite dei rispettivi sarcofagi, le fronti ornate di bassorilievi con scene rappresentanti il dio Sobek e i suoi beniamini.

Sempre nell’area del tempio era situato un nilometro, un’invenzione preziosa per il popolo del Nilo, che serviva a controllare il livello del fiume per prevedere le inondazioni. Lo strumento misurava le acque che affluivano tramite un canale in una cisterna, cui si accedeva per mezzo di scalini scavati a spirale intorno al muro perimetrale dove erano incisi gli indicatori. Valutando l’entità della piena i sacerdoti erano in grado di predire l’esito del raccolto. Non era l’unico modello in Egitto, ne esistevano anche di altri tipi, ma questo era senz’altro molto ben conservato.

Sulla spianata a fianco del tempio di Sobek Yasser si è soffermato davanti a un muro per farci notare un altro particolare interessante: nella pietra si potevano osservare degli incavi a forma di coda di rondine che contenevano pezzi di legno di sicomoro. Ci ha spiegato che questo legno era utilizzato per spaccare le pietre.

Gli Egizi, usando scalpelli e picconi di pietra o bronzo, scavavano dei fori lungo le linee di frattura della roccia, poi vi inserivano cunei di legno che, una volta imbevuti d’acqua, si gonfiavano al punto da esercitare una forza tale da spezzarla. Con questo sistema riuscivano a tagliare gli obelischi, come le lastre di pavimentazione dei santuari.

IN NAVIGAZIONE VERSO LUXOR

Nel pomeriggio abbiamo ripreso il viaggio. Ero contenta di assaporare ancora le sensazioni provate durante la navigazione verso sud. Stavolta seguivamo la corrente e le sponde riservavano sempre nuove sorprese. In certi tratti si susseguivano piccoli villaggi. Alcuni si affacciavano direttamente sulle rive sabbiose, in altri le case si intravedevano oltre gli argini costruiti a protezione delle piene.

L’impressione di essere proiettata in un passato remoto e immoto mi ha accompagnato per tutto il tragitto. Quei panorami erano rimasti uguali da secoli, nessun avvenimento epocale, capace di sconvolgere il resto dell’umanità, pareva aver intaccato la vita di quelle contrade.

Mi ero ormai abituata all’aspetto strambo degli edifici, ovunque uguali nell’architettura improvvisata, nei pali che spuntavano dai tetti, nei profili incerti e approssimativi. Poche costruzioni, si contavano sulla punta delle dita, apparivano completate, al punto da stonare quasi in quel contesto.

Sulle rive si scorgevano anche gruppi di persone. Immaginavo che nel tardo pomeriggio, sospeso il lavoro, i contadini si concedessero prima di cena una pausa di relax accomodandosi sui bordi del fiume; quale svago più rilassante dell’andirivieni dei battelli? Uno spettacolo gratuito quello dei natanti che si incrociavano spostandosi da nord a sud e da sud a nord, dove non mancava neanche il sonoro, dato che al momento dell’incontro si salutavano festosamente riempiendo l’aria di allegri strombettii di sirene.

Quel traffico incessante era anche un modo di guardare lontano, al di là della stretta valle assediata dal deserto, perché forniva una passerella di un mondo distante e irraggiungibile ai più, conosciuto solo attraverso la tv o i racconti degli emigrati. Le persone che transitavano appartenevano alle ricche società, in grado di spostarsi, di viaggiare, di godersi momenti di svago in località e ambienti diversissimi dai loro luoghi di provenienza. Navigavano comodamente seduti sulle poltrone del ponte, sorbivano bevande ghiacciate, catturavano con le fotocamere le scene insolite che scorrevano via via. Era l’incontro di due mondi separati.

Dove scomparivano i villaggi, la natura riconquistava lo spazio. I palmizi fronzuti che costeggiavano le rive per lunghi tratti, parevano spuntare direttamente dalle acque. Si alternavano a zone dove larghe strisce di terra piatta erano occupate da prati riservati a pascolo per i bufali, o da orti coltivati, che i contadini attraversavano caracollando in groppa agli asini. Laddove le sponde del Nilo si allontanavano, il fiume doveva superare le terre emerse dalla corrente al ritiro della piena, introducendosi fra i canali che separavano la miriade di isolotti a fior d’acqua.

Nella fase del tramonto sul lato occidentale è apparsa un’alta riva rocciosa, costellata di buchi chiaramente artificiali. Mi ha incuriosito, anche perché si notavano gruppi di persone, all’aspetto dei turisti, che percorrevano a piedi i sentieri lungo la costa. Ho chiesto ragguagli a Yasser che mi ha spiegato trattarsi del Gebel Sisila, nome che in arabo significa “Monte della Catena”, un luogo a metà strada tra Edfu e Kom Ombo, quindi al confine con la Nubia, ricco di cave sfruttate fin dall’Antico Regno, e di reperti archeologici.

Gli “occhi” di cui era costellata la parete rocciosa erano gli ingressi di tombe e cappelle rupestri. Fu ai tempi della XVIII dinastia che gli Egizi, probabilmente alti funzionari dell’epoca, scavarono nella montagna piccoli santuari dedicati alle divinità nilotiche. Le cappelle rupestri conservano sulle pareti numerose iscrizioni e graffiti. Quella che appariva con una fronte maggiore, aveva cinque porte separate da pilastri di diverse larghezze: era il tempio del faraone Horemheb, ultimo re della XVIII dinastia, costruito per celebrare la sua vittoria sul popolo nubiano. Il sito, ricco anche di stele e iscrizioni, era dunque una meta turistica come avevo immaginato.

Isabella Mecarelli, Viaggio in Egitto – capitolo 32 (continua)

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