VITTORIO ZEDDA: “La scuola dagli anatemi sul Presepe alle aule di preghiera islamica”

Ho terminato 24 anni fa di fare il capo d’istituto. Fu un’esperienza di grande rilievo su cui ancora ho molti motivi per soffermarmi a riflettere, come si fa quando un compito affrontato non pare definitivamente concluso. Anche se, da pensionato, a poco mi serve aver ancora qualche freccia al mio arco, e bersagli da centrare.

Tra i tanti, cito un dato d’esperienza che può sembrare secondario, e non è. Me n’ero già accorto tanto tempo fa, quando iniziai la mia carriera come insegnante: c’erano troppi docenti che avevano una conoscenza scarsa delle norme, persino quelle basilari, che regolavano l’esercizio della professione docente nella scuola pubblica di Stato.
Liquidavano le questioni di contenuto giuridico come “garbugli burocratici”, irrilevanti in un contesto didattico, quindi da accantonare o da aggirare. Per me, fresco di studi sulla legislazione scolastica, per il concorso magistrale da poco superato, quegli atteggiamenti dei colleghi parevano contraddittori.

Vincitore di un concorso a 19 anni, potevo però considerare col dovuto rispetto l’esperienza e la competenza dei miei colleghi, tanto più anziani di me. Forse ero “ricco” di teoria, ma povero di pratica. Ciò non di meno, nello “spirito delle leggi” sull’istruzione mi pareva ben presente l’intento giuridico di indirizzare il funzionamento dell’istituzione scuola, nella dovuta attenzione al personale scolastico, verso il conseguimento dei migliori risultati possibili, per gli alunni, le famiglie e la società.

Nominato Direttore Didattico, funzione poi riformata in quella di Dirigente Scolastico, iniziai fin dalle prime riunioni del collegio dei docenti, a richiamare secondo criteri di contesto e di opportunità, con il garbo e le prudenze del caso, l’attenzione sulle “regole” da rispettare, motivandole e sottolineandone il sostrato tendenzialmente aperto e finalizzato all’innovazione e al bene comune.
Su questa lettura del rapporto fra l’apparente staticità della legge e l’istanza anche giuridica dell’innovazione, basai l’interpretazione del mio ruolo dirigenziale e poi anche la fondazione di una rinnovata forma di associazionismo professionale dei Dirigenti Scolastici.
Tanto gli insegnanti quanto il dirigente, facevo notare, lavoravano alle dipendenze dello Stato, tramite una struttura operativa e amministrativa ministeriale che agiva attraverso una rete di scuole, docenti, dirigenti, personale amministrativo, uffici regionali, provinciali, ecc., opportunamente distribuiti sull’intero territorio nazionale, il tutto collocato nella rete partecipativa e promozionale degli Organi Collegiali d’ogni livello, da poco riordinati con le riforme del 1974.
La riflessione sul quadro operativo complessivo mi serviva per sottolineare la “coralità” di un compito collettivo che mirava al bene pubblico dell’Italia intera, attraverso l’istruzione dei bambini e dei ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado.

La scuola, intesa come servizio incardinato su un apparato organizzativo, ma non asservita all’apparato, era una “grande impresa” che ci vedeva, auspicabilmente, tutti impegnati, creativi e solidali verso un traguardo comune grandioso. Pur nella libertà garantita ai vari livelli professionali, andavano rispettati ambiti, limiti e obblighi derivati dalla più ampia architettura giuridica e istituzionale di uno Stato di diritto, di cui era necessario avere almeno una basilare contezza e coscienza, anche per attuare una corretta educazione alla legalità.
Era fondamentale quindi conoscere e riflettere sulle “regole del gioco”, quando se ne manifestava l’esigenza o l’opportunità, soprattutto tenendo conto che le regole erano espresse da leggi dello Stato, alle cui dipendenze, come insegnanti, operavamo.

Poiché il quadro normativo era mosso da intenti di innovazione, era necessario avere idee precise sulle novità che ci riguardavano. Notavo e facevo notare che per quanto la riforma degli organi collegiali fosse già operativa da tre anni, all’epoca della mia nomina a Direttore didattico, una parte consistente del personale scolastico non aveva ancora un’idea chiara sugli organi collegiali, con immaginabili esiti sulla qualità della partecipazione e su diffuse espressioni di noia e di rifiuto per le ulteriori “nuove regole”, gli adempimenti, le riunioni con la presenza di genitori, e altro su cui sorvolo.

In breve, il periodo “storico” della neonata “partecipazione sociale” e della “collegialità”, per quanto faticoso, mi offrì le condizioni per realizzare quella mia intenzione di far capire le “regole”, quindi le leggi, i decreti e i regolamenti, limitandomi ogni volta allo stretto necessario, in fatto di contenuti normativi, giusto per evidenziare la differenza fra regole e opinioni disinformate, che potevano alimentare polemiche dovute a mancanza di conoscenza.

Avendo quella lunga e datata esperienza alle spalle, ha destato in me solo una relativa sorpresa il fatto di cronaca, secondo il quale una maestra nell’anno “domini”(!) 2023 avrebbe fatto recitare delle preghiere ai suoi alunni, in aula e in orario di lezione. Ovviamente non era cosa da fare: la revisione del Concordato risaliva al lontano 1984 e le relative norme applicative al 1985, quindi di tempo per acquisire il nuovo quadro normativo, superare antiche consuetudini e maturare nuove consapevolezze, ce n’era stato a sufficienza.
Non mi soffermo su particolari non so quanto veritieri in merito a “riti”, attribuiti a quella maestra da chi in certe polemiche ci sguazza come una mosca nel miele. Il fatto che certe cose accadano suggeriscono pensieri sulla formazione professionale, non certo sulla “religione oppio dei popoli”, poiché la questione non riguarda la “religione”, ma il luogo e il contesto in cui una pratica religiosa va o non va collocata.
Mi sorprese la sanzione irrogata all’insegnante, ma non conoscendo il contenuto formale degli addebiti e del relativo provvedimento, mi astenni e mi astengo da giudizi. Come affermato e scritto in tante occasioni la “scuola è luogo di cultura” (anche religiosa), ma non di culto” e il culto si esercita e si estrinseca in atti, occasioni e forme e formule specifiche di devozione in tempi e luoghi idonei.
Si tratta di cose diverse dalla “cultura religiosa” che ha e deve avere nella scuola lo spazio che le compete, poiché le religioni hanno un’enorme importanza nella storia dei popoli e delle civiltà, nelle consuetudini e nelle tradizioni, nella cultura e nell’arte, quindi nella letteratura, la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, il teatro, la filosofia e nelle connessioni storiche con la politica, l’etica e non ultimo il Diritto, sia in termini di impianto giuridico di uno stato sia come tutela dei “Diritti Umani”, sanciti e riconosciuti a livello internazionale.

Come nota a margine segnalo che il tanto discusso “presepe”, non è un atto liturgico e nemmeno devozionale, ma è la riproposizione di un’antica tradizione di arte popolare, originariamente e tipicamente italiana, che spesso veniva allestito anche a scuola.
Il presepe gode di una sua straordinaria libertà espressiva in cui possono trovare spazio rappresentazioni di ambienti e di personaggi d’ogni genere e provenienza, quasi a significare che l’evento celebrato e rappresentato esiste e si rinnova oltre ogni limite di tempo e luogo.
Non risente quindi delle regole e dei canoni che configurano e definiscono gli atti di culto, che si esercitano e si estrinsecano in occasioni, celebrazioni, forme e formule specifiche di devozione in tempi e luoghi idonei, disciplinati con precisione dai canoni della liturgia.

Qualcuno attribuisce ad un Papa l’equiparazione del presepe ad un atto di culto, ma in tempi in cui un Papa afferma che, ad un’offesa nei confronti di sua madre, risponderebbe con un pugno, chiunque può tranquillamente esercitare il diritto ad un libero giudizio sulle opinioni di chicchessia.
Il presepe è quindi espressione di una cultura, e non “offende” i musulmani per i quali Cristo è un grande profeta che non è mai morto e pertanto tornerà alla fine dei tempi, accompagnando il nuovo profeta dell’islam (il Mahdi), mentre Maometto non tornerà, a termini di dottrina islamica, perché è morto. Il tutto detto in estrema sintesi.
Il presepio può essere quindi fatto o non fatto a scuola secondo la programmazione educativa e didattica predisposta dal corpo docente, senza timori reverenziali per religioni altrui, poco conosciute, forse come da noi lo stesso cristianesimo apparentemente ormai sulla via dell’oblio, al contrario dell’islam in crescita.

A proposito, visto che se ne parla poco o nulla a fronte delle preghiere della maestra, mi vien da pensare ad un preside di scuola secondaria che, secondo le cronache, se ben ricordo, destinò alcune aule alle preghiere degli studenti musulmani per il mese del Ramadan. Se le cose stanno così e la notizia è vera, si è trattato di atti di culto, a scuola.
Chi conosce l’islam, sa che le preghiere islamiche sono effettuate in spazi che separano i maschi dalle femmine: anche di questo si terrà conto in quelle scuole in cui si vorranno destinare spazi alle celebrazioni del Ramadan? È questo particolare un aspetto di rilievo per il rispetto della parità di genere che nella scuola non dovrebbe certamente subire un “vulnus”, per giunta da una pratica religiosa in quanto tale nemmeno ammessa.
I rapporti con l’islam non sono regolati da alcun concordato, poiché le molteplicità delle forme confessionali dell’islam, fra loro contrapposte, per giunta prive di ufficiali referenti di rappresentanza riconosciuti e giuridicamente riconoscibili, hanno di fatto reso impossibile fino ad ora qualsiasi specifico “concordato”, da operare non si sa con chi e come.
Anche la figura dell’imam, alla cui presunta funzione è stata da noi arbitrariamente attribuita una valenza quasi gerarchica, è nella sostanza un fedele che guida la preghiera collettiva. Però anche sugli imam esistono differenze secondo le varie confessioni islamiche, in alcuni casi governate da una specifico “clero” e in altri casi no.
Chissà se, in un ipotetico futuro “concordato”, si terrà conto del fatto che le dottrine religiose menzionate, non giuridicamente riconosciute dal nostro ordinamento, contengono e sostengono principi gravemente in contrasto con l’impianto giuridico su cui si basa una Repubblica Democratica Costituzionale, come la nostra.

Complicazioni inimmaginabili si profilano all’orizzonte. Una volta concesso uno spazio di espressione religiosa ad alcuni, come sarà poi possibile fronteggiare le richieste diversificate di tanti altri gruppi confessionali, seppur riferiti ad una stessa generica appartenenza all’islam, teoricamente “unico” anche se diviso da fazioni e confessioni distinte?
Chi sa quante aule sarebbero necessarie per le preghiere di tutti, maschi di qua, femmine di là, sempre che sia legittimo riferirsi a due sole ripartizioni degli spazi, e dei generi.

Orbene, il Ramadan 2024 quest’anno inizia a marzo. La dovuta attenzione alle norme vigenti dovrebbe evitare, come è immaginabile, problemi assurdi. Poiché la polemica politica si appropria di ogni bega buona per litigare, posso ragionevolmente temere le possibili complicazioni che la concessione di aule per le preghiere, da parte di qualsiasi eventuale preside, potrebbe suscitare in occasione del prossimo Ramadan.
E quel preside sarebbe poi sanzionato come la maestra, o no?
Oppure l’apertura crescente verso l’islam porterà ad esiti diversi e inattesi, poiché le leggi non considerano il caso “islam”? Dove non c’è il caso, non c’è il dolo?
Si dovrebbe, presumo io, ricorrere all’interpretazione e all’applicazione analogica delle leggi vigenti. Sembrerebbe ovvio, ma non è detto.
Le norme, nel nostro paese, regolano i rapporti dello Stato con le chiese cristiane. Mica con l’islam. Dove mancano le leggi, però, trovano facilmente spazio iniziative spontanee che, se reiterate, poi si impongono come consuetudini acquisite. Anche quelle estemporaneamente consentite e illegalmente tollerate? Stiamo attenti, molto attenti. E senza strabismi politici e confessionali.

Vittorio Zedda

1 commento su “VITTORIO ZEDDA: “La scuola dagli anatemi sul Presepe alle aule di preghiera islamica”

  1. Scritto magistrale caro Vittorio!
    Temo purtroppo che il maggior numero degli insegnanti oggi siano esattamente il frutto di quella decostruzione della scuola che è in atto da anni, sono infarciti di nozioni (a senso unico) e profondamente ideologizzati.
    I ragazzi che non si vogliono omologare vengono ostracizzati in tutti i modi, persino nella valutazione dell’apprendimento, il che dimostra che non vogliono formare uomini e donne maturi ma solo dei bravi soldatini conformi ai desiderata del padrone.
    Ed anche se i ragazzi trovassero sponda e conforto nei genitori, il numero di queste persone sveglie è sempre troppo esiguo per poter causare anche solo un lievissimo mal di pancia a questo sistema.
    Ciononostante, è necessario proseguire sulla strada che aperta da Magdi, sia studiando (io per prima) che manifestando senza timore le nostre idee. Goccia a goccia si scava la roccia!!

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