DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Il trattato politico De monarchia: una via laica per il raggiungimento dell’armonia terrena sotto la guida dell’autorità imperiale”

Pur essendo un’opera rigorosa sul piano del ragionamento a livello teorico e della consequenzialità logica delle deduzioni, il De monarchia è un lavoro in cui Dante dimostra di muoversi all’interno dello spazio concreto del proprio tempo.

Scritto in latino, e perciò indirizzato a un pubblico di lettori colti e nella posizione di poter realmente mettere in pratica le indicazioni che Dante fornisce, il De monarchia è un trattato in tre libri. Unica opera dottrinale portata a compimento dal grande scrittore fiorentino, essa illustra una proposta che rivela una validità pratica oltre i confini teorici della speculazione astratta.

La percezione dei problemi reali rispetto ai quali Dante suggerisce una soluzione da mettere in atto è confermata dalle premesse da cui lo scrittore muove, che richiedono una valutazione finalizzata a cambiare radicalmente l’Italia del proprio tempo.

È vero, di fatto, che Dante compie un passo all’indietro. Il punto di partenza del suo ragionamento propone uno sguardo all’ontologia delle cose. Il reale, così come si presenta nel Trecento, risulta deviato rispetto alla propria struttura costitutiva originaria.

Le due guide dell’uomo nel mondo, quella politica e quella spirituale, sono in crisi. All’inizio del Trecento l’istituzione dell’Impero e quella della Chiesa mostrano di aver perso il proprio ruolo cardine, rispettivamente politico-governativo e spirituale, che avevano avuto nell’ambito della nostra penisola lungo il corso dei secoli precedenti.

Il potere imperiale ha lasciato un vuoto che il Papato ha tentato di colmare corrompendosi. L’interesse nei confronti della materialità, che ha spinto la Chiesa ad assumere una dimensione temporale, ne ha svilito le istanze originarie. La mancanza di un rigore etico che sostanzi la sua dimensione di guida spirituale dell’uomo nel mondo, ha fatto del Papato un ente del tutto snaturato rispetto al suo statuto, smarrendo la via della propria missione sulla Terra.

Il disegno del De monarchia, d’altronde, non nasce da un mancato riconoscimento della situazione politica così come si presenta a quel tempo. Dante è fermamente convinto che la forma comunale dell’organizzazione politica e strutturale della penisola rappresenti la dimensione, in senso locale, attraverso la quale si realizza la partecipazione degli uomini alla vita pubblica e sociale del tempo.

Anche il coinvolgimento sentimentale che lega Dante alla vita della propria città è il segno evidente della propensione del poeta verso un’idea di patria che nasce da un senso di appartenenza diretta alla comunità circoscritta di cui si è originari.

La prospettiva che Dante segue, però, è quella di un allargamento verso un’unità politica più ampia rispetto alla forma comunale. E la necessità di rifondare una monarchia universale è confermata da un problema che accomuna tutti i comuni italiani: si tratta dall’oggettivo smarrimento della corretta via terrena da seguire affinché l’uomo consacri il suo percorso umano nel mondo.

Dunque sono queste le premesse che vengono poste a fondamento del ragionamento di Dante nei primi due libri dell’opera: la forma di governo perfetta è la monarchia; l’impero romano è l’esempio perfetto di governo a cui ispirarsi per riformare la situazione attuale.

Nel terzo libro, poi, Dante affronta la questione più rilevante, quella dei rapporti tra potere temporale e potere spirituale.

La tesi fondamentale che l’autore sostiene è che i due poteri, in quanto legittimati direttamente da Dio, devono rimanere indipendenti l’uno rispetto all’altro. L’Imperatore ha un’autorità che non deriva dal Papa, al quale quindi non è sottoposto, e il suo agire nel mondo deve la sua ragion d’essere all’investitura divina del suo ruolo.

Due sono le sfere d’azione indipendenti l’una rispetto all’altra e due sono i fini a cui tendere secondo l’imperscrutabile volere della Provvidenza. Quello che fa capo all’Impero è il raggiungimento della felicità dell’uomo in questa vita, quello che pertiene alla Chiesa è il raggiungimento della beatitudine eterna.

Premessa la superiorità della consacrazione spirituale dell’uomo, che avverrà seguendo una prospettiva trascendente e oltremondana, ciò che rivoluziona la mentalità tradizionale è proprio la convinzione di dover riconoscere piena autonomia all’agire umano nella dimensione della temporalità.

Forte di un profondo e maturo convincimento in linea con il dettato più autentico del messaggio cristiano, Dante ritiene che l’uomo deve essere dotato di una libertà di azione che nessun condizionamento superiore può smentire.

La sintesi finale cui il percorso esistenziale, terreno e ultraterreno, condurrà l’uomo sarà quello di ricongiungersi con Dio, permettendogli di riconquistare la sostanza divina alla base della sua origine. Ma l’articolazione di questo percorso prevede il rispetto costitutivo di quell’indipendenza e di quell’autonomia da riconoscere alla sfera tutta umana e terrena della vita e dell’agire nel mondo.

Il fondamento culturale che Dante pone attraverso la stesura di questo trattato conduce alla maturazione di una prospettiva di unità politica all’interno della quale individuare una collettività di uomini accomunati da un medesimo spirito e da uno stesso sentimento identitario.

Responsabile al contempo di una sintesi suprema delle istanze medievali e di un loro superamento, si tratta di un percorso che rivaluta la dignità della dimensione laica dell’esistenza, alla quale riconoscere una serietà costitutiva intrinseca.

La sfera dell’immanente, riconosciuta autonoma da qualsiasi prospettiva ascetica, concretizza umanizzandolo il fine esistenziale dell’uomo e indica come via del miglioramento di sé quella che conduce a un perfezionamento tutto umano e materiale che ha nella pace e nell’armonia terrena il suo fine più nobile.

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