DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Serietà di studio e integrità morale: i fondamenti umanistici della patria italiana nella visione dello studioso istriano Pier Paolo Vergerio”

Nel corso del XIV secolo l’Italia attraversa un’epoca di trasformazioni. Le strutture governative comunali lasciano progressivamente il passo a un sistema organizzativo di tipo regionale, caratterizzato da realtà territoriali più ampie.

Il passaggio dalle città-stato alle signorie rivela una tendenza politica che coincide con l’assorbimento di piccoli nuclei di potere, precedentemente autonomi, all’interno di contesti politici più potenti e facenti capo a un’amministrazione accentrata nelle mani di singole famiglie nobiliari.

Le ambizioni di conquista dei prìncipi determinano la nascita di contese e di rivalità che sfociano spesso in lunghe lotte e che determinano un arco di tempo di forte instabilità nella nostra penisola.

L’aumento della forza militare nelle mani di pochi signori induce a ipotizzare la possibilità che si affermi la supremazia di un’unica regione su tutte le altre e che questa supremazia possa indurre all’unificazione dell’Italia in un’unica entità governativa, al pari di diverse altre realtà continentali.

Nei fatti però i particolarismi e le prospettive individuali di conquista del potere conducono sempre a far prevalere un bisogno di equilibrio che ha come esito finale la pace di Lodi, firmata nel 1453.

Il raggiungimento di questo equilibrio, frutto di un sistema intricato di alleanze, segna la fine di ogni speranza di giungere, in Italia, a un’unità nazionale prematura. Il nostro Paese non segue perciò la stessa strada delle grandi realtà d’oltralpe.

Ci si chiede, tra l’altro, se nella mente degli uomini politici del tempo ci sia stato davvero il proposito di unificare l’Italia sotto un unico scettro. Giangaleazzo Visconti, duca di Milano, e Ladislao, re di Napoli, è possibile che abbiano realmente avuto un progetto di questo tipo. Di certo le potenzialità a loro disposizione sarebbero state tali da metterli nelle condizioni di attuarlo, tale progetto.

Nel XIV e nel XV secolo generalmente i signori alla guida degli stati italici ritengono un pericolo l’eventualità che un unico regnante venga a capo di una realtà territoriale che comprende un panorama di forze così ampio e variegato. L’idea che sia possibile un equilibrio che mantenga quella pluralità di enti politici indipendenti, rimane una proposta più confacente a un bisogno di stasi e di pace auspicato a seguito di lotte militarmente stancanti e svilenti.

Al di là degli eventi politico-militari, la nazione italiana non è pronta spiritualmente per realizzarsi sotto forma di entità unitaria. Il sentimento di appartenenza patriottica è perlopiù caratterizzato in senso prevalentemente particolaristico e locale.

Le varie popolazioni si percepiscono ancora originarie e appartenenti a realtà di tipo regionale: è prematura l’individuazione di un’istanza nazionale condivisa a livello generale.

Luciano Rossit in un suo articolo pubblicato su La Porta Orientale, rivista triestina dedicata alla storia politica e artistica della penisola d’Istria (Cfr. L. Rossit La patria italiana nel pensiero dell’umanista capodistriano P. P. Vergerio in La Porta Orientale, XVII 1947, 1-3), si domanda se però ci siano stati nei decenni a cavallo tra il XIV e il XV secolo delle personalità eccellenti che, tra gli altri, abbiano sognato o predicato l’unità italiana in quanto organizzazione politica più estesa, fascio di tutte le realtà locali riunite in un’unica identità.

Rossit delinea la figura di Pier Paolo Vergerio come quella di uno studioso umanista che, in accordo con ben pochi altri uomini mentalmente affini a lui, sembra impersonare un modello di intellettuale con un profilo mentale diverso rispetto a quello di altri umanisti.

Coloro i quali, in epoca umanistica, parlano di Italia, lo fanno per riferirsi, perlopiù, all’entità geografica che coincide con la nostra penisola, in modo da ottemperare alla necessità di non creare fraintendimenti in merito ai territori a cui essi alludono; e soprattutto intendono riferirsi al carattere identitario di una storia letteraria e artistica con una tradizione già consolidata.

Vergerio possiede invece una sostanza sentimentale che anima il suo coinvolgimento in una duplice direzione: «quello di amore e di dedizione alla patria e quello di odio e di disprezzo per lo straniero». Il suo pensiero sull’Italia pare animato da uno spirito che sembra condividere gli ideali di quei pochi grandi uomini che già al suo tempo avevano o avevano avuto un ingegno pronto a maturare una visione politica unificante.

In un’epistola indirizzata a Donato Compostelli, uomo politico veneziano, Vergerio afferma che operare per la patria è «sanctissimum studium» e «pulcherrima opera» (ep. XXXVII, 82), intendendo cioè che agire in favore della patria sia un impiego nobilissimo delle proprie energie e del proprio tempo, al punto che il beneficio, che la patria eventualmente ne ricavi, corrisponderebbe a una soddisfazione in grado di ripagare di ogni fatica.

Che parlando di “patria” Vergerio si riferisca a un’entità politica e territoriale non limitabile alla dimensione circoscritta del comune o della signoria è dimostrato dal fatto che lo studioso ha viaggiato molto e trascorso lunghi periodi della propria esistenza in altre città, dove pare si sia trovato pienamente a proprio agio.

Ma soprattutto ciò che toglie ogni dubbio sul convincimento del Nostro che per patria si debba intendere tutta l’Italia è il fatto che in lui si percepisce un forte fastidio nei confronti dell’ingerenza da parte di regnanti stranieri su questioni che riguardano l’Italia, cioè la casa degli Italiani.

Particolarmente evidente è questo suo modo di intendere le questioni attinenti ai fatti italiani, come di pertinenza solo degli uomini di cultura che risiedono nella penisola, quando egli si riferisce con un atteggiamento di disprezzo al conte d’Armagnac. Questi si apprestava ad attraversare le Alpi per correre in aiuto della Lega antiviscontea, “della quale faceva parte anche Padova con i Carraresi”. Egli, in virtù di un ideale di italianità superiore a ogni moto soggettivistico e localistico di guardare le cose, afferma: «Non c’è posto per lui in Italia. Italia si servire oportet, a solis Italis vincenda est» (cfr. ep. XXVII, 46).

Nell’esprimere pareri negativi finanche nei confronti di intere popolazioni straniere come quella dei francesi, considerati gente istintiva, mossa da impeti e priva di disciplina, Vergerio stigmatizza da un lato la situazione di perpetua bellicosità in cui si trova l’Italia, dall’altro la propensione dei prìncipi italiani a ricorrere ad aiuti “stranieri” per risolvere le questioni militari.

Lo studioso deride perfino, e lo fa in maniera sarcastica, il convincimento da parte dei responsabili della Lega antiviscontea che l’aiuto dei francesi rappresenti il valore in più che possa consentire alla Lega di riportare una sonora vittoria.

In un’epistola inviata a Giovanni da Bologna nel 1391(cfr. ep. XXXV, 79) Vergerio sottolinea proprio l’assurdità di ricorrere a genti straniere per risolvere problemi interni. Con tutta la rabbia e la forza in grado di animare queste che sono delle guerre fratricide, già di per sé assurde, non ha davvero senso che gli stranieri vengano a dare una mano all’Italia in quello che lo studioso istriano ritiene un vero suicidio.

Ancor più significativo risulta il contributo di Pier Paolo Vergerio se ci si riferisce a ciò che la sua testimonianza rappresenta in relazione alla costruzione della fisionomia morale ideale dell’uomo politico e di cultura moderno.

In una realtà in cui la fase caratterizzata da un’intensa partecipazione all’attività militare e alla politica attiva ha rapidamente lasciato il passo a un miglioramento economico che è coinciso con una netta diminuzione delle difficoltà e della durezza della lotta per l’esistenza, lo spirito di sacrificio è stato sostituito da uno stile di vita fatto di raffinatezze e di lusso, alla ricerca delle mollezze del piacere.

Anche gli uomini di cultura e i letterati, col tempo, tendono a inquadrare il proprio impegno come una vera e propria professione e, una volta conclusa la fase di lavoro, si abbandonano alla ricerca del godimento e del divertimento.

La decadenza morale va di pari passo con una turpe corruzione dei costumi, evidente soprattutto nelle corti principesche. «La condizione morale delle corti è disastrosa: abbondano gli adulatori e c’è grande carestia di sinceri consiglieri: anzi gli speculatori, che solo il proprio vantaggio van ricercando, tentano ogni calunnia contro i virtuosi, allo scopo di renderli odiati e sospetti. Dimodoché, mentre a questi piaggiatori e disonesti si tributano onori e doni, i cortigiani onesti null’altro ottengono che odio e diffidenza; talché si trovan posti nell’alternativa, qualora non sia onesto il lor principe, di andarsene lontani o di divenir malvagi essi stessi» (ep. XCVII, 247).

Le parole lucidissime dello studioso dimostrano una saggezza costruita sull’osservazione attenta dell’animo e della psicologia umani. Riconducibili a un’analisi valida tutt’oggi in merito allo smarrimento degli uomini che risentono della perdita di un orientamento certo e oggettivo in materia dei valori non negoziabili della vita, della dignità, della sincerità e del retto vivere, Vergerio fornisce una proposta di riedificazione, anch’essa condivisibile, per tornare ad avere dignità e credibilità.

«Gran felicità di tempi si ha quando regnano prìncipi cultori di quegli studi che ben si convengono alla dignità loro e che, in pari tempo sono indicatissimi all’utilità e al benessere dei cittadini. Poiché, altrimenti, in quale mai modo possono salvaguardare lodevolmente la propria dignità […], quei prìncipi che solo ai piaceri si dedicano o si affannano nell’avarizia, […]? Rovinati dal lusso infatti, trascurano se stessi e […] ingiustamente depredano le sostanze altrui. Lo studio delle scienze invece è ciò che particolarmente si addice ai principi; dal quale studio nasce il culto della virtù e si acquista la capacità della conoscenza nelle cose più degne: in primo luogo il prìncipe impara ad amministrare rettamente la giustizia, impara la grandezza della temperanza ed i precetti di ogni buona arte. Dalle quali virtù armonicamente riunite, infine, ne viene gloria al regnatore e salvezza al popolo […]» (ep. XVI, 31).

Il punto sul quale è necessario convergere, cioè, è sempre quello: bisogna riconoscere centralità allo studio e all’impegno nei riguardi delle attività che richiedono l’impiego severo e costruttivo delle facoltà mentali, affinché l’uomo acquisti una dignità che è conseguenza del suo profondarsi nella conoscenza di sé e del mondo.

La visione olistica della formazione dell’uomo, alla quale l’Umanesimo dà un contributo fondamentale, evidenzia come motore alla base dell’incontro costruttivo tra le facoltà umane l’insostituibile importanza dell’impegno mentale e della crescita intellettuale.

Anche a fondamento dell’arte del governare si pone la severità dello studio come fattore immancabile per ottenere i risultati più efficaci sia sul piano morale che pratico. È pienamente condivisibile questa valutazione benché nella pratica diventi sempre più rara la possibilità di riconoscere che le scelte dei regnanti siano mosse dalla volontà di porre sui posti di responsabilità persone che davvero lo meritino, in virtù del possesso della capacità di adempiere pienamente allo scopo richiesto dalla loro posizione.

Vergerio afferma che se i posti di responsabilità negli stati venissero affidati sempre a uomini integri ed onesti, la Cosa Pubblica funzionerebbe e nessun territorio sarebbe costretto a soffrire terribilmente per guerre e conflitti ma ovunque si godrebbe di pace, serenità e concordia.

L’uomo politico ideale è insomma colui il quale non si sente eccessivamente attaccato alle cariche pubbliche ma le ritiene uno strumento per operare il bene. Tra tutte le scienze e le discipline, perciò, più utile a fornire i principii per governare adeguatamente deve essere considerata la Storia. Dallo studio della storia si apprendono verità sulla vita e sulle vicende dei popoli e dei governi, al punto da trarne insegnamenti da mettere in pratica sempre.

Nell’epistola LXXIII Vergerio dice: «Se crediamo che i vecchi, appunto perché sono tali, sono i più prudenti, che cosa dobbiamo dire di coloro che, appresa la storia, abbracciano tutti i secoli addietro?» (cfr. ep. LXXIII, 172). La logica del ragionamento fornisce ulteriore validità alle considerazioni precedenti, anche intuitivamente condivisibili.

La convinzione di dover essere anche oggi, sull’esempio della testimonianza di Vergerio, dei veri umanisti rafforza ulteriormente la nostra certezza di trovarci sulla strada giusta per riemergere.

6 commenti su “DAVIDE MARIA ROSARIO FICARRA: “Serietà di studio e integrità morale: i fondamenti umanistici della patria italiana nella visione dello studioso istriano Pier Paolo Vergerio”

  1. Davide Ficarra ha la capacità culturale e la virtù umana di farci conoscere personaggi “minori”, il cui insegnamento è più che mai attuale e che li eleva a protagonisti della Storia.
    In parallelo ci rappresenta correttamente e ci fa scoprire l’intreccio dei fatti che sostanziano l’integralità e la complessità del vissuto dei protagonisti di una particolare epoca storica. Il suo approccio interdisciplinare attento ai fatti della Società, ai personaggi della Storia, al pensiero della Filosofia, agli ideali della Politica, apre la nostra mente e ci offre un quadro olistico della vita in uno specifico contesto spazio-temporale.
    Come Casa della Civiltà siamo particolarmente interessati ad approfondire il concetto e la realtà della “Patria”, partendo dalle sue origini fino alla sua sostanziale alienazione con la nascita, sulla base di una strategia massonica e con una guerra sanguinosa, dello Stato unitario nel 1861.
    Noi vogliamo riscoprire e far rinascere il concetto e, soprattutto, la realtà della Patria come alternativa qualitativamente migliore a uno Stato che è collassato.
    Alla luce di ciò, il lavoro culturale di Davide Ficarra è più che prezioso. A lui va la nostra gratitudine, assicurando l’impegno a conoscere adeguatamente la materia che ci auguriamo potrà tradursi in un’Italia qualitativamente migliore.
    Magdi Cristiano Allam

  2. Grazie Davide per il tuo interessante articolo su Pier Paolo Vergerio. L’ho trovato quanto mai attuale, e ci fa riflettere di come la Storia dovrebbe insegnarci come comportarci.
    Grazie, inoltre, per farci conoscere dei personaggi considerati minori, ma che minori non sono. Un passo mi ha particolarmente colpito: «Se i posti di responsabilità negli Stati venissero affidati sempre a uomini integri ed onesti, la cosa pubblica funzionerebbe e nessun territorio sarebbe costretto a soffrire terribilmente per guerre e conflitti, ma ovunque si godrebbe di pace, serenità e concordia. L’uomo politico ideale è insomma colui il quale non si sente eccessivamente attaccato alle cariche pubbliche ma le ritiene uno strumento per operare bene».

    1. Grazie a te, Stefania, per la lettura. È chiaramente utopistica la visione di Vergerio. Nella pratica avviene quasi sempre l’opposto. Chissà perché, però, chi studia e apre la propria mente, come hai ben sottolineato anche tu, si trova sempre sulla strada giusta. Il punto è quello: bisogna tornare a essere umanisti.

  3. Quanto è distante la realtà che ci circonda dall’ideale di Vergerio! Da sempre coloro che governano sono semplicemente vassalli di chi comanda realmente ben celato dietro le quinte. Credo che l’esempio più evidente dell’ignoranza e dell’incapacità siano stati, a livello nazionale, gli esponenti del movimento 5 stelle. Più in generale, in ogni caso, questa mediocrità è riscontrabile in tutti i politici, a tutti i livelli.
    Condivido l’affermazione di Vergerio riguardo a quanto sarebbe migliore la vita dei cittadini se ai posti di responsabilità ci fossero solo uomini integerrimi. Altrettanto condivido l’idea che chi si occupa di politica lo dovrebbe fare esclusivamente per il bene comune. Purtroppo la maggior parte delle volte quest’idea non viene perseguita nemmeno nelle piccole comunità locali. Sto toccando con mano, avendo scelto di impegnarmi per il mio comune di residenza, quale danno provocano le persone piene di se stesse ed attaccate alla “cadrèga”, alla poltrona di assessore e di quanta meschinità sono capaci certe persone.
    La formazione e la cultura credo servano anche ad acquisire una capacità di confronto costruttivo e sereno.
    Mi permetto, caro Davide, di condivide questo tuo articolo anche all’interno del gruppo con il quale ho accettato di mettermi in gioco, perché sono certa che lo sapranno apprezzare.

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