STEFANO DI FRANCESCO: ” Il Monte dei Paschi di Siena deve essere nazionalizzato”

MPS deve diventare il centro del sistema bancario pubblico italiano ed operare nell’esclusivo interesse nazionale.

Da anni, le vicende della banca senese riempiono le prime pagine dei giornali, tra scandali e gestioni clientelari, speculazioni in derivati e aumenti di capitale senza fine.

Le tribolate vicende del Monte dei Paschi iniziano venti anni fa,  nel 2002, quando  decise l’acquisto per incorporazione della Banca 121, pagandola circa 1,2 miliardi.

La Banca 121 assunse agli onori della cronaca per una serie di prodotti finanziari venduti ad ignari clienti facendo credere loro di star sottoscrivendo dei piani d’accumulo mentre in realtà erano dei veri e propri mutui, realizzando così una truffa di circa 2 miliardi di euro ai danni di 90.000 risparmiatori.

Malgrado i dirigenti MPS si affrettarono rapidamente a dichiarare la loro estraneità ai fatti, ciò gettò una prima alea di discredito su tutta la vicenda e sul management della banca.

Nel 2008, il vero e proprio capolavoro fu però l’acquisto della Banca Antonveneta , una banca che in realtà non godeva di ottima salute, che presentava una perdita d’esercizio di 6 milioni di euro, una forte riduzione della clientela e dei depositi.

La Banca Antonveneta era stata acquistata nel settembre del 2007 dal Banco Santander, per 6,6 miliardi di euro al termine di estenuanti e lunghe trattative sindacali.

MPS appena 4 mesi dopo, decise l’acquisto della banca padovana per una cifra pari a 10,3 miliardi di euro, cioè 3,7 miliardi in più del prezzo pagato dal Banco Santander.

Non solo. In realtà furono quasi 5 i miliardi pagati in più dal Monte dei Paschi perché dall’acquisto rimase fuori  il controllo di Interbanca, il corporate dell’istituto di Antonveneta che da solo valeva forse 1,1 miliardi di euro (se si leggono i report di Reuters dell’epoca) e che rimase, invece, nelle mani di Botin gran capo di Santander (l’uomo più influente della Spagna). Se  dunque Botin e Santander comprarono nel settembre Antonveneta per una cifra già esagerata di 6.6 miliardi era perché probabilmente  sapevano che dopo due mesi l’avrebbero rivenduta per una cifra ancora più assurda di 11.4 miliardi a MontePaschi (10.3 mld + 1.1 mld).

L’operazione MPS- BANCA ANTONVENETA fu scellerata sotto ogni punto di vista. All’epoca il Monte valeva 9 miliardi. Ciononostante decise di comprare una banca grande la metà (1.000 sportelli contro i propri 2.000) per giunta dalla salute assai precaria e la pagò una cifra superiore al proprio valore mediante un aumento di capitale, la vendita di cespiti  per far cassa.

Il Monte dei Paschi indebitato (per la prima volta nella sua storia) e la Fondazione dissanguata. Il Presidente  Mussari si impegnò a comprare per 10 miliardi una banca che per sua stessa ammissione ufficiale (Documento informativo alla B.I del 15.6.2008) ne valeva 3, senza avere un euro in cassa: l’antica cultura della cautela che aveva permesso al Monte, unica banca al mondo, di sopravvivere per oltre mezzo millennio, venne massacrata. Neanche 20 anni prima era la banca più solida d’Europa e la più liquida d’Italia,  tra le prime finanziatrice dell’interbancario (tutte le banche, anche le più grandi , ricorrevano ai suoi finanziamenti).

Ma le vicende che hanno segnato la storia recente  di MPS non terminano qui. Per nascondere le perdite derivanti dall’acquisizione di Antonveneta, nel 2009-2010 l’istituto commise un altro errore  stipulando derivati di tasso su gran parte dei titoli di Stato in portafoglio (compresi quelli trentennali, scadenza 2037 ). In pratica, trasformò gran parte del portafoglio a tasso fisso, in tasso variabile. Questo la portò a ulteriori perdite, con la rinuncia alle cedole sui titoli in cambio di un flusso cedolare quasi nullo. In questo modo 25 miliardi di euro di titoli di Stato finirono per rendere meno di zero. Con lo swap siglato, infatti, il valore medio delle cedole del 4,2% andò alle banche d’affari (Nomura e DB).

Di fatto la banca iniziò a  comportarsi come un Hedge Fund, realizzando operazioni speculative ed in derivati perlomeno stravaganti, senza gran senso logico,  che nel 2011 arrivarono a 38 miliardi di euro.

Da allora, la banca non è più stata in grado di produrre valore , necessitando di numerosi aumenti di capitale. La prossima iniezione di liquidità, la settima in appena 14 anni, sarà per un ammontare complessivo di 2,5 miliardi di euro, dei quali 1,6 a carico dello Stato, quale azionista di maggioranza  con il 64,23% ed il resto sottoscritto da soggetti privati.

L’aumento di capitele getta quindi le premesse per  portare il CET1 (la componente primaria del capitale della banca) nel 2024 ad un livello stabile sopra il 14%, ovvero 530bps (punti base) sopra lo SREP, e al 15.2% nel 2026.

 

 
L’ennesima ricapitalizzazione prevede che alla fine dell’operazione, una volta rafforzata la struttura patrimoniale della banca e quindi la sua  capacità di produrre utili futuri, questa debba essere privatizzata.

La banca oggi ha impieghi per circa 130 miliardi di euro, ha chiuso il primo semestre con un utile di 27,2 milioni di euro , ha 1360 filiali sul territorio nazionale ed ha concordato un piano di esuberi per il contenimento dei costi di circa 3500 dipendenti.

Ad oggi, la capitalizzazione del MPS in borsa è inferiore ai 250 milioni di euro, cioè circa un decimo dell’aumento di capitale previsto.

I punti cardine del nuovo piano industriale di MPS sono essenzialmente tre:

– crescita sostenibile dei ricavi, con una massima attenzione nei confronti dei costi (focus sulla  valorizzazione di Widiba banca digitale del gruppo)

–  credito al consumo con attività di internalizzazione

–  settore  bancassurance, dove Mps ha come partner unico la francese Axa

La difficoltà che la banca sta trovando nel convincere soggetti privati, in primis Anima e AXA, a sottoscrivere i 900 milioni di euro di capitale che non sono coperti dall’intervento statale, rendono la situazione assai caotica, specialmente per quei risparmiatori che avendo sottoscritto delle obbligazioni subordinate di MPS, potrebbero vedersele decurtate e convertite in azioni secondo la normativa vigente (articolo 132 della Direttiva UE/2014/59 Bank Recovery and Resolution Directive).

Sia il Tesoro che il management della banca stanno quindi cercando  di trovare finanziatori disposti a sottoscrivere l’aumento di capitale che dovrebbe partire il 17 ottobre.

Ma la domanda che dovremmo porci è la seguente: perché mai lo Stato dovrebbe rimettere in sesto una banca  e poi cederla a privati dopo averci  investito decine di  miliardi?

Perché non è possibile realizzare in Italia quello che è già realtà in molti paesi europei, Francia e Germania ad esempio, dove esiste una presenza di banche pubbliche al fianco di quelle private?

Laddove si sperimenta un sistema bancario misto, pubblico-privato, come in Germania, si può verificare che non solo le aziende di credito pubbliche realizzano politiche creditizie anticicliche, cioè aumentano il credito durante la fasi di crisi, riuscendo a finanziare le attività imprenditoriali  e fornendo loro la liquidità necessaria.

Ma e questo è forse il dato più sorprendete, riescono a realizzare risultati economici migliori delle cosiddette big banks, così come evidenziato dai bollettino della banca centrale tedesca:



Lo Stato italiano potrebbe e dovrebbe quindi dotarsi di un sistema di banche pubbliche formato dal MCC, MPS e Banca Popolare di Bari, controllate al 100% dal Tesoro.

Questo sistema di banche sarebbe da subito in grado di coprire l’intero Paese con le proprie filiali già esistenti ed assicurare un contatto diretto con la clientela privata e  con le imprese.

Il sistema di banche pubbliche assolverà fondamentalmente due compiti:

– Erogare credito e finanziamenti al settore privato, realizzando al bisogno politiche creditizie anticicliche;

– Acquistare il debito pubblico quotato sui mercati regolamentati nel momento in cui si verificassero tensioni legate alla sostenibilità del debito stesso.

Tutto questo permetterebbe al Paese di superare le turbolenze dei mesi a venire, contrastare realmente la crisi energetica, limitando i rischi relativi allo spread ed  alla ulteriore riduzione del credito ed instabilità del sistema bancario con il crescere del livello delle  sofferenze bancarie.

 

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